mercoledì 22 dicembre 2010

Intorno alla "Villa con prato all'inglese" di Germano Lombardi


Sul numero 5 della prima «Alfabeta» (era il 1979), Giuliano Gramigna pubblicò un articolo dedicato a Germano Lombardi, L’occhio di Beatrix. Ibridava nel suo i titoli di due, o forse dovrei dire tre, romanzi del di lui poco più giovane autore ligure: L’occhio di Heinrich e Cercando Beatrix (più Chi è Beatrix). A parte il fatto che gli occhi bicolori dell’ignota, inafferrabile ragazza si affacciano in vari volumi di Lombardi, compreso questo Villa con prato all’inglese che torna oggi in libreria per le edizioni il canneto dopo trentatré anni dalla sua prima edizione, Gramigna (o forse, per lui, un redattore dell’«Alfabeta» di allora) con il titolo a innesto coglieva due peculiarità dell’opera dell’amico: la tendenza agglutinante – così che di tre testi se ne fa uno – e il continuo slittamento di un personaggio nell’altro, la loro opaca definizione, la loro inconoscibilità che li rende tutti sovrapponibili. E questo malgrado la fauna umana di Lombardi esibisca una variegata casistica di deformità, malanni, inettitudini, nevrosi, perversioni: basti pensare a Lucio Batàn, l’anziano onanista cronico, nonché sadico “puro folle”, su cui si alza il sipario di Villa con prato all’inglese. Per quanto malfatti, i personaggi sono tutt’altro che dotati di personalità: il dettaglio, specie quello ripugnante, sporge fortemente, così come il nome, ma i vari tratti non si saldano mai in unità.
Lo scrittore di Oneglia, allora, si trovava già sospeso al limitare dell’oblìo che presto lo avrebbe inghiottito, più di tutti gli altri sodali del Gruppo 63, malgrado resti di lui un esemplare profilo critico a firma di Giulio Ferroni nei Contemporanei di Marzorati. Sospeso, e già come inclinato verso la dimenticanza, perché a quella data i fasti e i furori del Gruppo 63 erano lontani, e così le discussioni sul nouveau roman o sul romanzo sperimentale. Nel 1979, ossia nell’anno che preludeva all’arrivo di Altri libertini, del Nome della Rosa, nell’anno dello sperimentalismo soft e cordiale, tranquillizzante, di Se una notte d’inverno un viaggiatore, usciva Chi è Beatrix, non solo senza suscitare clamori, ma anche senza destare particolari interessi, come un frutto fuori stagione. Era il penultimo elemento della saga narrativa più destrutturata che si possa immaginare, con ogni probabilità la più destrutturata del secondo Novecento italiano.
Un corpus composto di otto “pezzi”, tra romanzi e raccolte di racconti, pubblicati nel non breve arco cronologico compreso tra il 1963 di Barcelona – il suo libro più noto, legato alla data cruciale del convegno di Palermo – e il 1979, appunto. Ospitati prima da «I Narratori» Feltrinelli, la collana dove uscivano tutte o quasi le opere più rappresentative della nuova avanguardia, transitarono poi a Rizzoli, l’editore che negli anni Settanta continuava ad ospitare anche i sempre più arditi antiromanzi di Gramigna, non solo critico finissimo ma altro romanziere ingiustamente dimenticato: L’empio Enea (1972), Il testo del racconto (1975) e Il gran trucco (1978).
Cercando Beatrix nel 1976 e Villa con prato all’inglese nel 1977 segnano il passaggio di Lombardi da Feltrinelli a Rizzoli. In queste otto opere la continuità è data dal ritorno degli stessi personaggi, a nome Giovanni Zevi, Enrico China, Berthús, Beatrix, dalla disseminazione cosmopolita delle vicende, dalla similarità delle tematiche; la discontinuità dal fatto che nessuno di loro assomiglia mai neanche a se stesso. E se la posizione e l’occasione retrospettiva permettono sempre bilanci e sguardi magnanimi, non sarà fuori luogo percepire oggi questa forma d’eccellenza, seppur non ortodossa; eccellenza che spiega l’oblìo; eccellenza nella destrutturazione.
In seguito Lombardi avrebbe pubblicato solo altri due romanzi: China il vecchio, quasi dieci anni dopo, nel 1987, e Instabile Oceano, apparso postumo nel 1993. Frattanto l’autore era mancato a Parigi, sessantasettenne, nel ’92.
Si è spesa, non con leggerezza, la parola «saga», più frequentemente adibita a sottogeneri letterari di consumo quali la fantascienza o il romanzo post-storico/neo-storico. Proprio «narratore come di una saga», ebbe a scriverne Marcello Carlino nel 2002, in occasione del conferimento del Premio Marino Piazzola alla memoria, «e però inusitata e inquietante, le cui sequenze non si svolgono secondo un ordinato filo temporale né disegnano l’unitario ritratto composito di più generazioni in successione (è la saga piuttosto di un tempo irrisolto, di una storia che non matura e invece si scompensa e si inturgida, e si frammenta o avvizzisce nel contagio tra i trascorsi e il presente dell’esperienza)».
Rileggendo oggi Lombardi, specie in questo divertente Villa con prato all’inglese, che fu ignorato anche dai critici di solito attenti al suo lavoro, come Lucio Vetri, che in Letteratura e caos non lo menziona neanche in bibliografia, in questo libro che non è il suo migliore (lo è invece probabilmente Il confine, insieme ad alcuni racconti di guerra de L’occhio di Heinrich) ma di certo il più piacevole, viene in mente con prepotenza tutta una genealogia non-italiana, segno del respiro internazionale posseduto allora dalla nostra letteratura: viene in mente il massimo cantore della stupefazione alcolica, quel Malcolm Lowry che con Under the Volcano fu molto amato, specie dagli autori in scuderia Feltrinelli, eppure ci volle tempo perché lo si ammettesse (Balestrini pagò il suo debito con una bellissima sezione de L’Editore, solo nel 1989), e comunque senza il pathos del disfacimento tragico; viene in mente William Burroughs, visionario poeta degli stati di coscienza alterati e del cut-up selvaggio, cui «il verri» dedicò un numero speciale già nel ’68, forse la prima rivista letteraria in Italia a registrarne la grandezza; ma un Burroughs senza il lirismo del lisergico; viene in mente il Thomas Pynchon di V., uscito nel medesimo ’63 di Barcelona, un libro il cui nome si espone, a sorpresa per l’Italia, già nei dibattiti del Gruppo sul romanzo sperimentale all’altezza del 1965, e che la scoordinata, sconclusionata, impossibile ricerca di Beatrix sembra costantemente evocare, ma senza l’aspirazione enciclopedica da opera-mondo che sempre abita Pynchon; viene in mente il primo Robbe-Grillet, quello del poliziesco edipico Le gomme, ma parodiato e reso definitivamente pop, come già lo aveva messo in scena il più precoce, talentuoso, irriverente dei giovani del Gruppo 63, Adriano Spatola – sedici anni in meno di Lombardi – nel suo L’Oblò. Ma come può, la metamorfosi pop, stupirci in un uomo che nei primi anni Sessanta era intimo amico del gruppo di artisti di Piazza del Popolo: di Mario Schifano, di Tano Festa, di Franco Angeli, che viveva insieme a Giosetta Fioroni?
Scorrendo queste pagine vengono in mente, persino, l’improbabile Bond di Ian Fleming, una presenza obbligata nell’immaginario del decennio, o i duri investigatori/agenti segreti di poche parole e sempre miracolosamente intuitivi che raccontava Alistair MacLean, il più fortunato autore di war e spy stories dei Sixties. Il MacLean di Base Artica Zebra, di Where Eagles Dare, di Fear is the key, amatissimo nel mondo anglosassone anche prima che i suoi romanzi diventassero film di successo, non sembra davvero lontano, in molte scene, dalla mente di Lombardi. Mente capace, però, di estrarre dal sussiego di quegli agenti segreti anche un rovescio della medaglia comico-grottesco, di fare cioè dei loro silenzi una incapacità espressiva, delle loro intuizioni folgoranti dei plateali abbagli, della loro solitudine professionale un isolamento da disadattati, della loro prontezza di spirito una paralisi costante, del loro “niente sesso siamo inglesi” una sorta di disperata incapacità di usare il corpo, persino nelle sue funzioni essenziali.

Lombardi è uno scrittore impaziente, come fu in vita con i suoi tanti lavori, i suoi tanti domicili, da una parte e dell’altra dell’Atlantico e della Manica: un viaggiatore instancabile, uno scrittore che ama immaginare ma non ama indugiare a scrivere; perciò attinge a buffe formule burocratiche per introdurre i suoi personaggi dai nomi totalmente inverosimili («Mattia Pineale Justerini, ufficiale marconista di anni 29 e Mimosa Regno, detta Ricsciò, di anni 22»; «Nuvolo Cisterna, di anni 28, ex carabiniere»; «Olimpia de Amicis Justerini aveva anni quarantanove, da ventiquattro anni vedova di James Justerini, scozzese»; «la signorina Albana Molteni, di anni 38», e così via). Nessi formulari da organigramma d’ufficio dove sembra risuonare il memorabile incipit della Ragazza Carla di Pagliarani: «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo / all’ombra del Duomo», in quanto atto di nascita, almeno in Italia, di una letteratura scarnificata nel lavacro purgatoriale del mondo del lavoro, e della sua forma mentis.
Nelle legnose specificazioni di indirizzi e luoghi vive il rifiuto di ogni narrare finto aproblematico, cioè dell’inganno sottostante a ogni “realismo”: «L’auto era una 126 Fiat presa in affitto al garage “Flowers Rent” di San Remo sito in via Maj, numero civico 32 […] Un quarto d’ora dopo era nella città di Oneglia, via Viesseux 12, nella libreria di Onesto Cavour, nativo di Asti, di anni 68». Il genere giallo, la quête investigativa, viene così ricondotta al suo etimo di verbale di polizia. E questa tendenza è perfettamente in asse con analoghe suggestioni provenienti dall’area francese, prima e dopo i colloqui di Cerisy; penso a L’inquisitoria di Pinget, su tutti, o anche alla trilogia d’esordio di Robbe-Grillet, continuamente embricata tra giallo e perplessità scopica, tra raccolta degli indizi e loro pedissequa descrizione, non significativa. Se l’indizio dovrebbe essere per sua natura un segno significante, e spesso invece l’école du regard si arena volontariamente su segni non significanti, ecco che il sottogenere del racconto giallo diventa un perfetto diverticolo che ritorce contro la narrativa di consumo i suoi stessi stereotipi. Un percorso storicamente culminante in un capolavoro come La gelosia, dove l’occhio che raccoglie e descrive è l’occhio dell’ossessivo, sì da offrire la congiunzione apparentemente impossibile del massimo di oggettività con il massimo di soggettività.
Tutto ciò cozza in maniera proficua con l’ispirazione assolutamente romanzesca (quasi nel senso di romance) delle opere di Lombardi, dove si è sempre in presenza, almeno supposta, di complotti, attentati, spionaggi, furti, fughe, contrabbandi, tradimenti, omicidi, interrogatori, violenze. Un repertorio che, se trattato diversamente, sarebbe pronto per l’etichetta di postmoderno, e invece si ferma un passo prima, laddove il repertorio è ancora assunto con metodo critico, anzi smontato senza rimontarlo, anzi senza nemmeno più lasciare in giro le istruzioni per l’uso. Qualcosa che, con tutte le differenze del caso, e pure con qualche similarità, avrebbe fatto anni più tardi Don DeLillo nel suo libro più enigmatico, I nomi.
La tensione fondamentale di Lombardi si sviluppa tra il racconto e l’afasia, male da cui sono attanagliati tutti i suoi protagonisti, e le sue trame medesime, sempre tronche, sempre incapaci di concludersi o anche solo di esplicitarsi, sottoposte a continui cambi di scena e a recisioni impreviste, non funzionali. In Villa con prato all’inglese abbiamo un plot fumettistico che ruota intorno a una collana di diamanti rubata, a certe oscure vicende dell’epoca di Salò, e a svariati morti ammazzati, alcuni dei quali nascosti da gran tempo sotto il verde piano del giardino che dà il titolo al romanzo. Seguire da presso più che mai il modello del giallo internazionale fleminghiano, e neutralizzarlo continuamente, frustrando il desiderio di un qualche appagante approdo di senso, resta l’inganno più gustoso perpetrato da Lombardi in questo suo libro.
Libro che, per la curiosa eterogenesi di cui è capace a volte la letteratura, sembra a più riprese resuscitato, senza recar coscienza del proprio antico sé, nelle pagine recenti di Verderame di Michele Mari, anch’esse dominate dalla presenza di un giardino dagli oscuri segreti, di una villa di campagna, di scheletri sepolti di nascosto e ritrovati, di una memoria flebile e vana, un “letargo di talpe, abiezione che funghisce su sé”, per dirla montalianamente.

(una versione assai più breve è apparsa su "Alfabeta 2", n. 5, dicembre 2010)

giovedì 16 dicembre 2010

Finalmente


Sono due volte contento, oggi. La prima è perché i bellissimi Moleskine, che Sergio Garufi scriveva su Nazione Indiana, e poi sul suo blog lavienbeige, sono finalmente diventati un libro. La seconda è perché questo è un libro di Senzapatria, la creatura editoriale appena nata ma sorprendentemente vivace di un altro uomo che stimo molto, Carlo Cannella.
E mi viene da pensare, come spesso m'è accaduto, che i libri sono in assoluto la cosa più preziosa e sottocosto che esista. Il mercato librario è un'illusione ottica (come altri mercati, ma in misura maggiore). Se un barile di petrolio costa molto meno, in proporzione, di una bottiglia d'acqua minerale, ed è un assurdo, pensate a chi mai, sano di mente, potrebbe venderci, per una cifra che va dai dieci ai venti euro, una cosa preziosissima, dal valore inesauribile, che cresce nel tempo, che si mostra in modi sempre differenti, che non annoia mai perché si trasforma insieme a noi e alla nostra cultura, e lo fa da sola, senza bisogno di upgrade o di componenti aggiuntive, una cosa sempre pronta all'uso, che non consuma niente, né inquina. Stando comodi dentro quel range possiamo diventare possessori nientemeno che de La Divina Commedia, o di tutte le tragedie di Eschilo o di Shakespeare, o di un Cervantes o di un Dostoevskij. Esiste qualcos'altro di valore anche solo lontanamente paragonabile, a un prezzo simile? Scervellatevi pure, non vi verrà in mente.
Ecco, oggi, con solo 5 euro, finalmente (e dico "finalmente" ore rotundo, avendo atteso questo momento da tempo) possiamo comprarci non semplicemente un bel libro. Possiamo fare conoscenza con un nuovo modo di guardare il mondo. Perché un buon libro qualsiasi è poco più che una buona storia ben raccontata, ed è già tanto.
Ma la nascita di uno scrittore vero è un incontro che ti cambia. Con 5 euro qui si fa l'esperienza di ascoltare una voce nuova, significativa, della letteratura italiana.
Benarrivato Sergio, bravo Carlo. Grazie a entrambi.

martedì 7 dicembre 2010

E' iniziata la campagna elettorale.

Domenica, insieme, due tragedie e due titoli strillati da tutti i giornali: marocchino rapisce e uccide la ragazzina di Bergamo, lo inchioda un'intercettazione; marocchino drogato e senza patente massacra sette ciclisti a Lamezia. Oggi si legge (ma poco più che in un trafiletto) che uno la patente ce l'aveva, e che l'altro non c'entra nulla... l'intercettazione era stata tradotta male. E io penso: è iniziata la campagna elettorale.
Questo, il punto di partenza. Qualcuno potrebbe obiettare (senz'altro qualcuno lo farebbe rabbiosamente, in un luogo più affollato) che insomma, qui si sta a spaccare il capello in quattro, ma resta la spaventosa strage di sette uomini uccisi, e per il momento anche l'accusa di guida in stato di alterazione da stupefacenti.
Benissimo, parliamone. L'altra sera ero rimasto molto colpito da un servizio, in tv, non so più in che canale: il fratello del guidatore dell'auto era andato spontaneamente a cercare la troupe del TG per contestare la notizia e dire che non era vero suo fratello fosse senza patente. Ce l'aveva la patente, e infatti l'uomo ne recava con sé una fotocopia. Il giornalista è parso per un attimo interdetto, ma non ha fatto quello che mi sarei aspettato, anzi quel che il suo ruolo gli imponeva: filmare quella patente in fotocopia, e mostrarla, se così stavano le cose. Quella era la notizia. Invece no, ha fatto parlare maldestramente l'uomo, non ritratto in volto, e gli ha chiesto della droga. Lui ha assicurato che no, suo fratello niente, lui neanche sigarette, lui no droga. Perfetto, ho pensato io. E chi ci crede?
Ma è sottile, sapete, questa cosa. Sottile davvero. Diamo pure la parola al fratello marocchino del marocchino assassino, lasciamogli dire che no fuma neanche sigarette, così dietro quell'indimostrabile affermazione, che tutti prenderanno alzando le spalle, come la consueta bugia sfacciata di questi arabi mentitori nati, se ne va anche l'altra, più pericolosa perché sostenuta da una prova. La patente, valida. Fotocopia in mano. Non la riprendere però, mi raccomando.
Torniamo ai sette morti. Le immagini erano spaventose. Ma a me una cosa è subito suonata strana. La Mercedes. Una bella macchina, nuova, costosa. Aspetta. Qui il quadro stona. Il marocchino tossico e senza patente sulla Mercedes ci potrà andare solo se l'ha rubata. Ma invece no, in tv non ci dicono che l'abbia rubata. Uhm...
Allora aspetta, quanti anni ha questo generico "marocchino"? Trenta? Cinquanta? No, ventidue. E di che droga era pieno? Crack? Cocaina? Eroina? No, positivo alla cannabis. Ah...
Non mi si deve fraintendere, la cosa è serissima, è una tragedia nella tragedia, e io non sto scherzando. Ma voglio dirlo chiaro e tondo. Un ragazzo di ventidue anni, oggi, in giro per l'Italia, che non sia positivo alla cannabis, è probabilmente un caso più unico che raro. E la patente ce l'aveva.
Insomma, questo tizio ha fatto una strage senza precedenti, ha scritto una delle pagine più sanguinose sulla strada degli ultimi anni, e lo ha fatto probabilmente per una criminale avventatezza nella guida. In più, era uno che si fumava le canne, il che non significa affatto che quella manovra da pazzo l'abbia fatta sotto l'effetto di qualcosa. C'è un mucchio di gente che guida spericolata anche in condizioni di perfetta sobrietà.
Ora, questi sono i veri fatti. Un ragazzo di ventidue anni ammazza sette persone perché è un irresponsabile totale con la Mercedes. Il titolo diceva "Marocchino drogato senza patente ammazza sette persone". A me la differenza sembra enorme.
Per non parlare di quell'altro povero cristo, che sono andati ad acchiapparlo in mezzo al mare, come con un arrembaggio da pirati, scambiando per fuga delle vacanze già da tempo programmate, e interpretando due madonne dette al telefono per una confessione di colpa. Ma qualcuno a questo ragazzo, che a tutta italia (e uso la minuscola, qui ci vuole) immediatamente è stato venduto come il rapitore e l'assassino di Yara, sì da generare immediatamente la scesa in piazza di quel pericoloso demente con il cartello "occhio per occhio", e altri simili decerebrati, a quel ragazzo, dico, qualcuno chiederà almeno scusa?
Temo di no, perché comunque è un extracomunitario.

sabato 13 novembre 2010

Rispecchiamento

Qualche sera fa, arrivato in stazione da Rimini, dovevo tornarmene a casa come sempre in autobus, e mi è successo di trovare la Circolare 33, quella che compie il giro dei viali di Bologna, parcheggiata alla fermata di piazza Medaglie d'Oro in un ben strano modo: era parzialmente in mezzo alla via, con tutte le porte spalancate e senza autista. Già non è normale vedere un mezzo così grande lasciato a ingombrare un luogo spaventosamente trafficato come quello, e nemmeno è normale trovare un autobus fermo senza conducente, perché se fosse pure il momento del cambio di guida, di solito l'uno non se ne va senza che il sostituto sia nemmeno in vista. Sembrava più un mezzo incidentato o in panne, tanto è vero che io sono salito un po' guardingo, e ho chiesto agli altri sparuti passeggeri se per caso si fosse rotto qualcosa, ma nessuno ne sapeva niente. Lo avevano trovato lì come me, come una balena spiaggiata, le porte aperte, per metà parallelo al marciapiede, per l'altra metà, dopo lo snodo, a invadere una carreggiata, quasi sotto il semaforo.
Insieme a me sono entrati una coppia di ragazzi spagnoli, evidentemente studenti Erasmus, ai quali altri amici iberici, tutti molto belli e allegri, giù dal bus, raccomandavano di scendere quando fossero arrivati a Porta San Felice. Sono rimasti per un po' lì ad aspettare che partissimo, chiacchierando e scherzando da terra con i due a bordo. Non capivo le loro parole, ma capivo che parlavano di case di amici, di locali, di passeggiate notturne, di programmi, di lezioni all'indomani, di tutta la bella vita bolognese per uno studente fuori sede in una città piena di giovani e di stranieri. Poi, visto che non succedeva niente, hanno salutato e se ne sono andati.
Frattanto che aspettavamo soluzione alla stasi inspiegata del mezzo, e altri minuti passavano, ho preso a vergognarmi, al pensiero della impeccabile Spagna che ricordavo, di fronte a questo così plateale disservizio in un sistema di trasporto peraltro buono come quello di Bologna. Strani pensieri in libertà, residui di pseudo orgoglio nazionale a rovescio anche in una persona che solitamente non è molto incline a questo genere di fantasticherie.
Dopo tanto, troppo tempo che quel dinosauro strozzava la circolazione già di suo ingolfatissima, è arrivato un autista; salito dal fondo, ha attraversato l'intero bus come se tutto fosse normale, senza dire una parola di spiegazione a nessuno di noi presenti, e si è seduto con serafica calma al suo posto. Mentre armeggiava per mettersi comodo, il ragazzo spagnolo è andato gentilemente a chiedergli se poteva cambiare due euro per fare il biglietto a bordo, e quello, figuriamoci, lo ha trattato molto sgarbatamente, scuotendo la testa. Intanto, il mezzo si era avviato lungo i viali, nella notte. Con aria un po' delusa, lui se n'è tornato a sedere.
Dopo un paio di fermate, è stata la ragazza della coppia ad avvicinarmisi e mi ha chiesto la stessa cosa. Io per caso le avevo, due monete da un euro, così i giovani studenti spagnoli, che quasi erano a destinazione, e che pure erano stati maltrattati dall'autista arrivato con dieci minuti di ritardo, invece che infischiarsene e finire il breve viaggio gratis, si sono fatti i loro bravi biglietti.
Quando la porta a vetri del bus si è aperta per farli smontare, lei si è girata verso di me e mi ha fatto un sorriso, un gesto piccolo con la mano di saluto, come ringraziamento.
Poi sono scesi, la porta si è richiusa. E io mi sono visto nel vetro, seduto dentro il bus, gonfio in viso, segnato sotto gli occhi.
E ho capito di colpo perché parlo sempre di vecchiaia, quando mi sorgono quegli irrefrenabili conati di autocommiserazione. Perché parlo sempre di vecchiaia quando vorrei invece parlare di solitudine.
Perché la vecchiaia è solitudine. L'orrore del corpo che diventa protagonista, al contrario di come, se hai avuto fortuna, è stato quand'eri giovane. Quand'eri giovane il corpo si faceva protagonista in un modo che ti apriva verso l'esterno, che creava contatti con gli altri, che permetteva di interagire in mille modi, fosse nel ballo, nello sport, nel mangiare bere fumare in grandi tavolate, nel correre, cantare, nuotare, urlare, rotolarsi con il cane, andare a cavallo; nel fare l'amore, soprattutto. Quel protagonismo si rovescia, si introflette. Il corpo che ti permetteva di fare tutte quelle cose, improvvisamente te le nega tutte, e subentrano la fatica l'acciacco la stanchezza la cattiva digestione il.... soprattutto ti nega ciò a cui quelle azioni ti conducevano: la relazione con altri esseri umani. La vecchiaia è la solitudine del centrarsi su se stessi, sui propri malanni, sulle proprie sfortune, sulle proprie ossessioni e frustrazioni, sulle piccolezze che diventano drammi, sui minimi fastidi che diventano pene insopportabili, sulle pulviscolari contrarietà che diventano crucci enormi e pensieri fissi, sui rovesci da niente che assurgono a grandi sconfitte.
Mi sono rispecchiato, in quella porta a vetri chiusa di fronte alla notte e al traffico, chiusa alle spalle dei due allegri e gentili ragazzi spagnoli che se ne andavano verso qualcosa, qualunque cosa fosse, insieme, e ho capito perché dico sempre di essere vecchio, a 38 anni.

mercoledì 10 novembre 2010

Uno straordinario racconto di vita, di musica, d'amicizia e d'amore.




(dal sito ufficiale di Bruce Springsteen, l'orazione funebre per Danny Federici. Traduzione, libera, del sottoscritto. Chi può si legga l'originale.)


Buon viaggio, buona fortuna, salve e addio, Danny
FAREWELL TO DANNY


Lasciate che inizi raccontandovi una storia, delle storie.
Dobbiamo tornare indietro ai giorni in cui avvenivano i prodigi, i giorni della Frontiera, quando Mad Dog Lopez con il suo caratteraccio incuteva un sacro timore nella band, nei proprietari dei piccoli club, nella gente perbene e in tutte le donne, i bambini, e i cuccioli in giro.
Tornare indietro a giorni in cui ancora potevi spender in un colpo solo la tua vita, giocartela sul cofano di una macchina parcheggiata, da qualche parte a New York City.
Indietro, quando da poco un giovane suonatore d’accordion rosso di capelli aveva vinto una medaglia d’oro al concorso di Ted Mack, e lui e sua madre s'erano fatti un viaggio premio fino in Svizzera, per andare a vedere come le facevano, quelle meravigliose fisarmoniche.
Indietro, ancora indietro, prima che i vagabondi da spiaggia finissero sulla copertina di Time.
Sto parlando di giorni lontani, quando la E Street Band era una specie di organizzazione comunista! Il mio pallido, silenzioso, timido Dan Federici è stato lo specialista nel creare alcune delle situazioni più pelose di tutta la nostra quarantennale carriera. E non era un ruolo facile da conquistarsi, quello. Aveva “Mad Dog” Lopez con cui misurarsi… Ma Danny, semplicemente, gli diede la paga.
Forse tutto cominciò dal brutto guaio con la polizia a Middletown, New Jersey. Capitò durante uno show che dovevamo fare per tirar su un po’ di soldi di cauzione per “Mad Dog” Lopez. Lui al tempo era finito in cella a Richmond, Virginia, dopo un litigio violento con dei poliziotti, e a peggiorare la situazione ci avevamo pensato noi andando troppo lunghi a suonare. Danny presumibilmente rovesciò la catasta dei nostri enormi Marshall su alcuni degli ufficiali di Middletown che avevano aggredito il palco per farci smettere. Eh certo, avevamo infranto la legge… suonando oltre l’ora consentita.
Quando mi affacciai a guardare, c’erano parecchi poliziotti che strisciavano fuori da sotto gli amplificatori ribaltati e si affannavano in giro in cerca di cure mediche. Un altro grazioso ufficiale si mise dritto di fronte a me sul palco brandendo il manganello, spintonandomi e riempiendomi di insulti. Continuai a cercare con gli occhi dove fosse finito Danny, e infine lo vidi, con un nerboruto rappresentante della legge che lo strattonava per un braccio. Dall'altra parte Flo, la sua prima moglie, lo strattonava del pari, cercando forse, in qualche modo, di aiutarlo a sottrarsi all'arresto.
Un ragazzo saltò su dalla sala fin sul palco, e per un attimo distrasse l’attenzione dell’energumeno in divisa con un’antologia degli insulti del giorno. Come poi accadde sempre anche in seguito, “il Fantasma” Dan Federici si tuffò in mezzo alla folla, e scomparve.
Con un mandato d’arresto a suo nome, e dopo un mese intero di latitanza, non era ancora stato consegnato alla giustizia. Noi lo avevamo nascosto nei posti più diversi, ma a quel punto si presentava un problema serio. Si avvicinava uno show, fissato al Monmouth College. Avevamo bisogno di soldi, e quel concerto andava fatto. Cercammo a lungo un sostituto, facemmo prove e provini, però non funzionava. Alla fine Danny, lasciandoci tutti sorpresi e ammirati, si alzò e disse che si sarebbe giocato la sua libertà, avrebbe corso il rischio e suonato.
Arriva la sera dello show. C’erano duemila nostri fans urlanti a stipare la palestra del Monmouth College. Ci eravamo organizzati per far sì che Danny non salisse sul palco fino al momento esatto in cui avremmo iniziato a suonare. L’idea era che la polizia lì presente per mettergli le mani addosso non si sarebbe azzardata a farlo davanti a tutti, durante il concerto, con il rischio di dare il via a un altro tafferuglio.
Lasciate che vi descriva la scena, provate a immaginarvela. Danny se ne stava nascosto, semisdraiato nel sedile posteriore di un’auto, fuori nel parcheggio. Quando mancano cinque minuti alle otto, l’ora per noi di attaccare a suonare, vado a chiamarlo.
Gli tamburello sul finestrino: “Danny, forza, è ora”.
E sento che mi dice “Non vengo”.
Io gli faccio: “Che cosa vorrebbe dire “non vengo”?”
“Guarda che ci stanno i poliziotti, sul tetto della palestra”, mi spiega Danny. “Li ho visti. Scenderanno giù e mi arresteranno appena metto fuori un piede da questa macchina”.
Apro la portiera. Annuso, e mi rendo conto immediatamente che Danny s'era fumato qualcosa, e mi era entrato in paranoia. “Non ci sono poliziotti, sul tetto, Dan”, gli dico.
E lui, ancora: “Sì che ci sono. Li ho visti con i miei occhi. Te lo ripeto, non ci vengo dentro a suonare”.
Insomma, fui costretto a usare una procedura cui poi dovetti ricorrere spesso, nei quarant’anni seguenti, per venire a patti con le preoccupazioni dei miei vecchi amici. Lo minacciai... e insieme lo blandii. Alla fine, se ne venne. Scivolammo attraverso tutto il parcheggio e dentro la palestra per andare a tenere un concerto che uscì fuori frenetico, entusiasta. Tutto il tempo ce la ridemmo come pazzi, come ladri che l’avevano fatta franca, come running backers che hanno fatto una schivata da manuale alla polizia locale intenta a placcarci.
Quando arrivammo alla fine dello show, durante l’ultimo pezzo, chiamai in piedi e fin sul palco la gente, così Danny sparì tra il pubblico e uscì sfacciatamente, in tutta sicurezza, dall’entrata principale. Ancora una volta, Dan il “Fantasma” aveva fatto la sua dipartita speciale. (E, sapete? Mi arrivano ancora le cartoline d’auguri dal vecchio capo della polizia di Middletown. La loro storia e la nostra sono rimaste intrecciate, per sempre). Ma questo, amici miei, come si dice, era solo l’inizio.
Ci fu quella volta in cui Danny lasciò la band, durante un periodaccio in cui suonavamo al Max’s Kansas City. Mi spiegò che se ne andava per mettersi a riparare televisori. Io che potevo fare? Gli chiesi di pensarci su, e di tornare da noi, più avanti.
O ci fu quella volta che Danny, nella macchina a noleggio della band, speronò parecchie altre auto parcheggiate dopo una notte brava, e sfondò il parabrezza con la testa nell’impatto, ma si salvò dal farsi veramente male grazie a un fottuto capello da cowboy rigido che aveva comprato in Texas, al tempo della nostra ultima scorribanda giù nel West.
E un’altra volta ancora lasciò una grande pianta di marijuana in bella vista sul sedile davanti della sua auto, parcheggiata in una zona di rimozione forzata. La macchina, ovviamente, fu subito sequestrata. E lui mi dice: “Bruce, ora vado là e ai poliziotti racconto che era rubata”. Gli feci presente che non mi sembrava una grande idea.
Ci andò lo stesso, e finì in gattabuia dritto filato.
Danny fu l’unico membro della E Street Band che sia stato fisicamente buttato fuori dallo Stone Pony. Se penso a quanti soldi gli facemmo fare, a quel posto, non era un trattamento così facile da ottenere.
Ma d’altronde fu persino in grado di sopportare una strapazzata, a mo' di ammonimento - addirittura di sopravviverci! - da parte di un furioso “Big Man” Clarence Clemons, che non so come riusciva ad esser compassato anche quand'era furioso. Successe al tempo in cui abitavano insieme. Danny era riuscito a portare “Big Man” fuori dalla grazie di Dio.
Me lo ricordo una volta intento ad aiutarmi a tirar fuori il piede dall’altoparlante del suo stereo. È stato l’unico membro della band, in assoluto, capace di farmi arrabbiare così tanto.
Attraverso tutto questo e tanto altro, Danny suonava per me il suo magnifico, emozionante organo Hammond B3, e il nostro amore cresceva. E continuava a crescere. La vita è divertente e strana così. Era un ragazzino, e insieme un fenomeno; alla fin fine, era ben più tollerante lui delle mie debolezze di quanto io fossi con le sue.
Quando non combinava guai o disastri, era un uomo di buon cuore, dolce, talentuoso, modesto, senza pretese, che possedeva, per dirla in breve, l’abilità naturale di uscirsene senza un graffio quando le cose andavano assolutamente a sfracello.
Ma, a parte tutto, possedeva una montagna di talento, di talenti. Gli erano stati dati il cuore e l’anima di un ingegnere. Aveva imparato a pilotare aeroplani. Era sempre aggiornato sulle tecnologie più recenti, e te le avrebbe spiegate, se tu avessi voluto, con enorme pazienza, fin nei minimi dettagli. Lo trovavi sempre che stava a riparare qualcosa: la sua macchina, lo stereo, il suo hammond B3. Quando Patti si unì alla band, lui fui il più benevolo, il più attento, il più gentile amico nei confronti della prima donna che fosse stata ammessa nel nostro club tutto al maschile.
Amava tanto i suoi figli: si vantava sempre di Jason, Harley e Madison. E amava tanto sua moglie Maya, per tutto quel nuovo mondo di cose meravigliose che aveva portato nella sua vita.
E poi, c’era la sua arte. Era il musicista più intuitivo che abbia mai conosciuto. Il suo stile era scivoloso e fluido, spalmato tra gli spazi che gli altri membri della E Street Band lasciavano vuoti. Non era un musicista che si imponeva, era uno che si univa, completava. Un vero accompagnatore. Lui spontaneamente forniva il collante che teneva insieme il sound di tutta la band. Nel fare ciò, si era creato uno stile tutto suo. Quando ascolti Dan Federici, non senti una coltre di suono, senti un riff, un graffio, fatto di pura energia, di ritmo, che sorvola sopra tutti gli altri strumenti per pochi istanti e poi torna a scomparire dentro la canzone. Il “Fantasma” Dan Federici. Ora lo senti. Ora non lo senti più.
Giù dal palco o fuori dai teatri, Danny non era in grado di ripeterti un verso né una progressione di accordi di nessuna mia canzone. Invece, sul palco, le sue orecchie si spalancavano. Ascoltava, sentiva intimamente, suonava, trovando sempre lo spazio perfetto, la posizione ideale per un accordo o per una spruzzata di note. Quello stile creò un incredibile senso di spontaneità nel nostro far musica tutti insieme.
In studio, durante le registrazioni, se volevo arrivare al fondo del lavoro su una canzone, dovevo solo dare il via a Danny e non dirgli cosa o come suonare. Solo lasciarlo libero. Lui avrebbe portato con sé nel pezzo i suoni del carnevale, i divertimenti, le passeggiate, la spiaggia… tutta la mappa della nostra giovinezza, e il cuore e l’anima del luogo dove la E Street Band era nata.

Poi crescemmo. Molto molto lentamente. Passammo, rimanendo in piedi, attraverso un mucchio di prove, casini e tribolazioni. La risposta di Danny a ogni cosa, fosse essa un errore capitato suonando dal vivo, o fossero tempi duri, o qualche evento catastrofico, di solito era una scrollata di spalle con un sorriso. Come a dire: “Io sono soltanto un uomo in un mare in tempesta, ma sto ancora a galla. Siamo ancora qui”.
Ho visto Danny combattere – e sconfiggere – alcune pesanti dipendenze. L’ho visto sforzarsi di rimettere insieme i pezzi della sua vita, e negli ultimi dieci anni, da quando la band si è riunita, sembrava che traesse linfa e gioia a sedersi dietro la tastiera di quel grande B3, pieno com’era di vitalità e, sì, di una nuova maturità, della passione per il suo lavoro, la sua famiglia e la sua casa trovata in questa gran fratellanza e sorellanza nel nostro gruppo.
Negli ultimi tempi l’ho visto lottare con il cancro senza piangersi addosso, con un immenso coraggio. Quando gli chiedevo come andavano le cose, come stesse, mi rispondeva semplicemente “Che vuoi farci? Io guardo avanti, a domani”. Danny, il fatalista ottimista. Non ha mai mollato, fino alla fine.
Qualche settimana fa ci siamo trovati sul palco insieme a Indianapolis per quello che sarebbe stato il suo ultimo show. Prima che salissimo, gli chiesi che cosa gli avrebbe fatto piacere suonare, e lui mi disse “Sandy”. Voleva mettersi a tracolla il suo accordion e riportare in vita le passeggiate a mare della nostra giovinezza, quando camminavamo insieme tutta la notte per quei pontili di legno, con a disposizione tutto il tempo del mondo.
E chi se ne frega se siamo andati a sbattere contro tre macchine parcheggiate, guarda che notte magnifica! Chi se importa se siamo ricercati da tutto il dipartimento di polizia di Middletown, andiamoci a fare una nuotata! Lui quella sera volle suonare ancora una volta, una volta ancora, una canzone che parla della fine di qualcosa di meraviglioso, e dell’inizio di qualcosa che non sai cos’è.
Torniamo, venite con me, ai giorni dei miracoli. Pete Townshend una volta ha detto: “una rock and roll band è una cosa pazzesca. Incontri dei tizi quando sei appena un ragazzo e senza neanche un pensiero, poi ti ci leghi, e ci passi tutta la vita, non importa chi sono o quante cose folli combinino”.
Se noi non avessimo suonato insieme nella E Street Band, probabilmente a questo punto non ci conosceremmo nemmeno più. Certo non saremmo in questa stanza tutti insieme. Ma invece ci siamo… Suoniamo ancora insieme. E ogni sera alle otto in punto, quando montiamo sul palco, amici miei, quel palco è il luogo dove prendon vita i miracoli. Vecchi e nuovi miracoli. E le persone che sono insieme a te, in presenza di un miracolo, anche di uno solo, sono persone che non potrai mai dimenticare. La vita non vi separa. Il tempo non vi separa. Nemmeno le inimicizie. La morte, neppure. Le persone che hanno dato vita a dei miracoli per te, come Danny ha fatto per me ogni sera, sono persone che ti onorano con la loro vicinanza.
Certo, siamo tutti diventati grandi, e sappiamo che “it's only rock and roll”... ma poi no, non è così. Dopo una vita intera passata a guardar un uomo che crea i suoi miracoli per te, notte dopo notte, questa roba assomiglia un sacco solo all’amore.
Così, oggi, mentre fa un’altra delle sue misteriose uscite di scena, noi diciamo ciao, buon viaggio, buona fortuna, salve e addio a Danny “il Fantasma” Federici. Padre, marito, mio fratello, mio amico, mio mistero, mia spina, mia rosa, mio organista, mio uomo dei miracoli e membro a vita nell’ultima ribalta della house rockin’, pants droppin’, earth shockin’, hard rockin’, booty shakin’, love makin’, heart breakin’, soul cryin’... and, yes, death defyin’ legendary E Street Band.



Bruce Springsteen

Red Bank, New Jersey, 21st April 2008

sabato 11 settembre 2010

Dedicato a Guido Morselli


Finalmente è on line Morselliana, il numero monografico della "Rivista di studi italiani", (http://www.rivistadistudiitaliani.it/rivista.php?annonum=2009e2), che ha voluto dedicare un nuovo contributo di studi allo scrittore bolognese-varesino.
Nel volume pensato e curato dal bravo Alessandro Gaudio, volume che forse diventerà anche un libro cartaceo, ma che per ora è liberamente scaricabile in pdf dalla rete, si leggono molti studi importanti, sia di critici di fama come Rinaldo Rinaldi, Valentina Fortichiari, e altri, sia di più giovani, accademicamente parlando, ma non meno valenti. In particolare, vale davvero la pena leggere il bellissimo, appassionante e densissimo saggio che Maria Panetta, dell'Università di Roma "La Sapienza", ha dedicato al poco noto (perché impervio) Fede e critica, rinvenendovi, tra l'altro, la lontana genesi e il senso più autentico del libro maggiormente noto (e forse meno inteso) di Morselli, Dissipatio H.G.
Quanto al sottoscritto, dirò solo che ho cercato di apporre un punto di vista integrativo e innovativo al romanzo a me più caro di Morselli, Contro-passato prossimo. I pochi lettori del mio blog capiranno facilmente perché, sapendomi appassionato da sempre della storia del primo conflitto mondiale. I tanti (o forse pur sempre pochi) lettori del varesino, infatti - parlo di lettori-critici - a mio parere avevano ignorato in blocco un aspetto per me macroscopico, ossia la presenza, nel romanzo, del giovane Rommel. Non nel senso che non lo avevano rilevato; sarebbe stato impossibile. Ma non si erano posti la domanda: perché Rommel? E' un nome preso a caso dalla storia? E' un nome preso perché a portata di mano, facile, famoso? A mio parere no. Ed è quello che ho cercato di spiegare.

giovedì 22 luglio 2010

La vita privata


Stavo pensando, l'altra sera, mentre chiacchieravo con un caro amico che mi rimprovera perché scrivo troppo poco, al singolare paradosso contenuto nell'espressione "la vita privata". Di solito, ciò che si indica è un ambito squisitamente circoscritto e spesso difeso con tenacia, o comunque tutto quanto ci appartiene in modo più profondo e risentito. Quasi sempre, infatti, si parla della tutela del privato, o si proclama che certe questioni sono questioni private. Di questi tempi, la protezione della privacy nel nostro sciagurato paese ha assunto forme tragiche e farsesche insieme, e non vale la pena spenderci parole.
Ma, criminali a parte, e politici correi che intendono tutelarli, per le persone comuni comunque la privatezza è sinonimo di intimità, di valore tout court, o perlomeno di un valore che noi - suoi possessori - giudichiamo non negoziabile. Se io ho una vergognosa passione segreta per una prassi che il mondo giudica impresentabile o solo sciocca, come collezionare tutte le penne o le matite che ho usato per scrivere dall'infanzia a oggi (e so per certo di qualcuno che ha siffatto feticismo, ma non sono io, dio me ne guardi), ebbene quello è il mio "privato", me lo tengo privato, e nel mio sancta sanctorum di bambino non cresciuto soddisfo a volontà un feroce principio di piacere.
Accade però che possa darsi anche il contrario; che talvolta, cioè, "la vita privata" sia soltanto la vita intesa come privazione, in primo luogo di se stessa e di ciò che la qualifica maggiormente, di ciò che dovrebbe darle valore. Ma intendiamoci: non penso solo alla vita privata "di" qualcosa, depauperata, defraudata, spossessata di un oggetto d'amore o di una fonte qualsivoglia di gratificazione. Fosse questo, sarebbe comunque doloroso, e tuttavia comune, comunissimo, cosa di tutti, sospetto.
No, talvolta - ed è credo l'occorrenza peggiore - la vita privata è privata anche della possibilità di dirsi, di raccontarsi, di esprimersi, o al limite di dichiararsi in quanto tale. E' privata della facoltà (cioè della libertà) di rendersi pubblica. Costringe alla segretezza, non volontaria come quella cui alludevo prima, bensì imposta ed eterodiretta; costringe all'opaco, alla reticenza, condanna all'incomprensione anche da parte delle persone più care e vicine, con le quali non puoi parlare, e che di conseguenza non possono capire le ragioni dei tuoi comportamenti. Quando la tua vita privata è ostaggio di qualcuno che per proprie convenienze decide di farti vivere nell'ombra, e fino a quando glielo permetti, essa è davvero privata in questo solo senso, orribile, non nell'altro convenzionale e in fondo confortevole. Semplicemente, non la possiedi più. E nulla varrebbe a redenzione di questo stato di cose, tanto meno un banale, volgare epicureismo. Anche se in quell'ombra si consumassero delizie paradisiache. Tanto più che su qualunque delizia paradisiaca stinge ben presto l'agrume, se ci si sente precari, abusivi, non riconosciuti, non accettati.
Mi viene in mente spesso, come una memoria d'incubo, una pagina bellissima del Consiglio d'Egitto di Sciascia, sulla solitudine spaventosa, assoluta, dell'uomo torturato. E penso spesso che è la medesima solitudine del clandestino.

mercoledì 19 maggio 2010

Per Edoardo Sanguineti


In quasi quindici anni, dal 1996 a oggi, ho avuto la fortuna e l'onore di incontrare Edoardo Sanguineti innumerevoli volte.
Non era difficile, con uno straordinario giramondo come lui. Anche se restavi fermo in un luogo, prima o poi potevi star certo che ci sarebbe passato.
E non alludo necessariamente a questa Bologna che lo ha sempre amato in modo particolare, a partire dall'uomo che tra i primi credette nella sua formidabile intelligenza, Luciano Anceschi, passando per il suo più fedele studioso e compagno di viaggio, Fausto Curi, fino a Niva Lorenzini. No, l'ho incontrato dappertutto: da Novilara, un piccolo paese nell'entroterra delle Marche (dove in una calda notte d'estate del '97 eseguì Postkarten accompagnato dal contrabbasso di Stefano Scodanibbio) alla spiaggia di Rimini, in una memorabile reunion dei Novissimi senza Antonio Porta, purtroppo; da Bologna a Modena alla sua Genova; da Faenza a Marradi (dove tenne un illuminante discorso su Campana, al teatro degli Animosi); e se mi mettessi a scartabellare (vedete come le sue parole mi circondano, sempre...), chissà quante altre occorrenze troverei. Troverei una conferenza riminese su Buñuel talmente travolgente che alla fine gli dissi - e lui ne rise di gusto - che in quella performance gli mancava soltanto una chitarra elettrica in mano; troverei una Lectura Dantis del XXX dell'Inferno a Bologna, nella Sala dell'Arengo, che resta il punto di partenza per ogni mia "lezione" su Dante; troverei le notti caleidoscopiche del Ritratto del Novecento in Sala Borsa; troverei quella volta che lo incontrai per caso all'Archiginnasio, con le stampelle, dopo oltre un anno di fermo, e ne fui felice come un bambino; troverei la lettura struggente di Aprire di Antonio Porta, che mandò come contributo in video al convegno per il decennale della morte dell'amico; troverei le lettere dattiloscritte con i suoi suggerimenti critici ai miei lavori e le cartoline con le opere di Lucio Del Pezzo che ogni tanto mi mandava; troverei la strepitosa (ma una qualsiasi) lezione su Gramsci che ascoltai a Genova, in mezzo ai suoi studenti; troverei mille altre cose...

Oggi tutti si metteranno a scrivere di Sanguineti, ed è giusto e comprensibile. Io ho dedicato gran parte di questi quindici anni a rapportarmi al suo mondo di poeta e di intellettuale. Altri parleranno della poesia, della politica, delle arti e dello spettacolo, dell'insegnante, del teorico, del polemista. Quello che a me viene più urgente da scrivere, ora, per rendergli omaggio, sono tre piccoli raccconti sull'uomo, a cui ero specialmente affezionato. Perché il magistero di Sanguineti, per me, è stato - più ancora che culturale - umano.

Nel dicembre del '97 andai la prima volta a Genova, mentre stavo lavorando alla mia tesi di laurea, per incontrarlo.
In via Balbi, quella mattina, fuori dal suo studio c'erano molti ragazzi per il normale ricevimento del professore. Aspettai che tutti avessero parlato con lui, poi mi presentai e chiesi se potevo rubargli la mezz'ora rimanente per sottoporgli alcune questioni che mi erano venute in mente durante il lavoro. Conoscevo già la sua cortesia e la sua disponibilità, ma ciò che accadde quel giorno mi rimase impresso per sempre. Verso la fine del tempo (all'ora successiva lui doveva far lezione, quindi non poteva trattenersi ulteriormente), mi scappò, senza malizia alcuna, un'esclamazione come "sapesse quante altre cose avrei da chiederle!".
Invece che lasciar cadere quel commento, Sanguineti mi fissò, con i suoi occhi di inestinguibile vivacità, e mi disse: "Facciamo così. Se lei può fermarsi a Genova, torni domattina, e ci vediamo di nuovo qui alle dieci, così avremo tutto il tempo". Non aveva ricevimento, né lezione, il giorno seguente. Tornava solo per me, per ascoltare le domande di un laureando qualsiasi venuto da Bologna.
Ma non finì qui. Aggiunse: "Le chiedo solo di avere un po' di pazienza. Se dovessi tardare, mi aspetti".
Il mattino dopo, Genova si svegliò sotto una nevicata imponente. Il traffico genovese, già disastroso al naturale, era un groviglio isterico. Io mi ero alzato molto presto, non conoscendo bene i tempi di percorrenza in quella città così allungata, e nondimeno arrivai in Università a malapena in orario. Ero certo di due cose. In primo luogo che Sanguineti sarebbe arrivato senz'altro tardi, e in secondo luogo che, se non fosse venuto affatto, ne avrebbe avuto ottimi motivi.
Alle dieci esatte, con i capelli imbiancati, quell'uomo straordinario entrò nel corridoio, con il suo solito sorriso.

Durante il colloquio, mi permisi di chiedergli lumi su un volume intitolato Smorfie ed edito a Roma da Etrusculudens nel 1986 che, pur presente in ogni sua bibliografia, io non riuscivo a rintracciare da nessuna parte. Molti testi degli autori della neoavanguardia erano difficilmente reperibili, ma quello lo era in modo specialissimo. Sanguineti non mi diede spiegazioni particolari, mi disse solo: "Guardi, io potrei certo prometterle di fotocopiarglielo, ma poi, con tutte le cose che ho da fare, tornerei a casa e me ne dimenticherei. Allora lei faccia così. Quando sarà a Bologna, mi scriva una lettera di questo tenore: Caro Professore, lei mi ha promesso ecc. ecc., e io allora provvederò".
Tornai a casa frastornato da tanta disponibilità. E in imbarazzo, giustamente, perchè mi rendevo conto che non era esattamente normale sentirsi rispondere in simili termini. Un "Non trova Smorfie? Si arrangi" sarebbe stato forse brusco, ma chiunque altro avrebbe agito piuttosto in quel modo.

L'imbarazzo mi legò le mani, e quella lettera di richiesta non ne voleva sapere di uscire fuori. Alla fine, più per non sembrare maleducato a non farmi più sentire, la scrissi, parodiando in qualche modo il "sanguinetese" dei Giornalini che erano da due anni mia lettura quasi quotidiana. La parodia (o l'imitazione) serviva solo a travestire l'imbarazzo, ma dovette divertirlo.
Lui mi aveva promesso delle fotocopie. Una settimana dopo (non un mese, una settimana!) l'invio della lettera - per posta normale, niente e-mail allora - trovai nella mia buchetta un plico proveniente da Genova. C'era dentro il libro, altro che fotocopie!, con una bellissima dedica. E la soluzione dell'arcano. Smorfie non lo trovavo perché era un volume d'arte, con i disegni di Tommaso Cascella, tirato in pochi esemplari. Io non ne avevo la benché minima idea.

Alcuni anni dopo, nel 2000, Riccione organizzò una grande mostra di Enrico Baj al Palazzo del Turismo, e Sanguineti rilesse per l'occasione il suo Alfabeto Apocalittico al pubblico nella piazza antistante. Ero andato alla mostra con un mio amico, e durante il vernissage ci fu un momento - niente affatto breve, in realtà - in cui quei due giganti della cultura e dell'arte novecentesca si intrattennero a parlare con noi, due ragazzi qualsiasi, mentre assessori imprenditori critici d'arte e dame varie s'aggiravano come squali a cerchi concentrici tutto intorno. Baj e Sanguineti erano della stessa razza: ricordo che Baj il giorno dopo lavorò una mattina intera con dei bambini delle elementari in un parco di Rimini, e insegnò loro a giocare con il dripping. Io me ne andavo, poi, tra i lavori magnifici fatti da quei piccoli Pollock, incredulo, e pensavo a un ottantenne così allegro, così capace di giocare e di far giocare, così serio nel gioco.

Sono felice di aver salutato Edoardo Sanguineti, qualche giorno fa, a Bologna, in una serata in suo onore all'Archiginnasio. Era profondamente, visibilmente, commosso - lui che di solito rifuggiva sempre dai sentimentalismi, non per indole ma per ideologia - di tutto l'affetto e l'attenzione che lo hanno circondato sempre.
E sono felice che proprio oggi sul Corriere ci sia un suo articolo sull'Homo ludens. Non poteva scegliere un argomento più suo, per uscire di scena.

Ha scritto mille volte sulla morte, e della morte. Ma ha sempre danzato dentro la vita. La morte, in realtà, non gli interessava, a lui interessava l'uomo, e l'amore, e la storia, e il mondo com'è, o come dovremmo cercare di costruirlo.
Per questo la sua storia non finisce, come non finivano mai le sue poesie. Per questo lo voglio salutare con il suo marchio, i due punti

:

venerdì 30 aprile 2010

Donarsi fino alla fine

Una bellissima pagina di Cristina Campo che accoglie il visitatore sulla home page di Libri Necessari (www.librinecessari.it), e che oggi mi parla in maniera particolare:


"Souffrir pour quelque chose c’est lui avoir accordé une attention extrême".
(Così Omero soffre per i Troiani, contempla la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella dell’avversario).
E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi.
È avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.
Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine,all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
È chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione.

(Cristina Campo, ne Gli Imperdonabili)

Quando arrivi allo stremo, delle forze e delle speranze, e la logica ti ha abbandonato da tempo, così come la dignità, e l'amor proprio, e tutto ciò che sembra dar senso alle giornate, l'ultima cosa di cui avresti bisogno è un passo come questo.
Che invece è illuminante perché così contrario al senso comune dell'egoistico proteggersi, dell'occhialuto risparmiarsi, dell'animalesco sopravvivere.
Bisogna donarsi fino alla fine, perché ne vale la pena, niente altro vale la pena. Donarsi soffrendo, certo, in questa forma estrema di concentrazione. Quando la difensiva nebbia dell'esistere banale si sgombra, e vedi con tanta accecante chiarezza cosa davvero conta, nella vita, non puoi più distoglierne lo sguardo. In un mondo di talpe, comprendi l'aquila, che fissa il sole senza batter ciglio.
E io questo ho fatto, questo faccio, questo continuerò a fare.
Non ho bisogno di salvezza. Mi salva la stessa cosa che mi perderà, se mi perderà. Ma niente va perduto, in tanta sofferenza, in tanta gioia.

sabato 10 aprile 2010

Un lenzuolo messo a stendere

Leggevo in questi giorni che sono attesi due milioni di visitatori a Torino per la sindone. La cifra è da capogiro, ma lo è di più se contestualizzata. Se rapportata a ciò che avviene in questi giorni, con tutto il marcio che finalmente sta venendo fuori intorno alla chiesa e al suo degno "pastore"! E anche con tutto quello di cui non si parla affatto, come lo scandalo del collegio di Verona.
L'Italia è sempre la solita, deprimente, vigliacca, francamente regressiva: più i suoi patetici "simboli" vengono messi in discussione, più si vi compatta attorno, ginocchioni. Sindrome dello struzzo stupido. Invece che nello sforzo di migliorarsi, insegue sempre le sue certezze nel suo peggio, lo abbraccia, lo esalta, ci si rotola, ci si insterca tutta.
Non solo per questo, ma anche per questo, tanti più scandali e porcherie nascono intorno al Berlusca, tanto più lui vince.
Per questo, sospetto, il consenso dell'italietta fascista al suo buffone balconato fu tanto forte in tempi di embargo internazionale: evviva l'autarchia, gridavano entusiasti, correndo a donare fedi e ori. Abbiamo dato il potere a un cialtrone criminale? E tutto il mondo ce ne chiede ragione? Ebbene, dagli al resto del mondo, acclama lo scimmione.
Per questo, anche se non solo per questo, tanti processi per mafia ad Andreotti, carichi di prove schiaccianti e conclusi - come si sa o si dovrebbe sapere - con la conferma delle accuse, non ne scalfirono anzi ne rafforzarono l'aura.

martedì 30 marzo 2010

Assistere al proprio sfacelo

Ho pensato spesso all'ultima terrificante frase del Processo di Kafka: "e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere" (così, nelle parole di Primo Levi).
Ma per fortuna no, non ti sopravvive niente. Niente, neanche la vergogna.

Levinàs allinea, sullo stesso piano, la vergogna, la nausea e il bisogno corporale (è Agamben a ricordarlo, in Quel che resta di Auschwitz). Perchè in tutti e tre i casi "facciamo esperienza della nostra rivoltante e, tuttavia, insopprimibile, presenza a noi stessi". Siamo nudi, e non vorremmo esserlo. Vorremmo fuggire, essere altrove, essere altro, anzi siamo altro, non riusciamo a capacitarci che quella parola sciocca, quella frase infelice, quella cicatrice repellente, quella deformità, quel rumore bruto, quella impertinenza assoluta, sia venuta a visitarci, e ci rappresenti così integralmente, spietatamente, irrevocabilmente. Prigionieri di una cella orrenda che sgomenta come fosse mai vista e insieme perché è consustanziale a noi.
E, ancora - sono sempre parole di Agamben - è "come se la nostra coscienza franasse e sfuggisse da ogni parte e, nello stesso tempo, fosse convocata da un decreto irrecusabile ad assistere senza scampo al proprio sfacelo, al non esser mio di ciò che mi è assolutamente proprio. Nella vergogna il soggetto non ha, cioè, altro contenuto che la propria desoggettivazione, diventa testimone del proprio dissesto, del proprio perdersi come soggetto".

C'è anche un'altra esperienza, nella vita, almeno nella vita mia, che possiede i medesimi connotati. Come nausea, vergogna, bisogno corporale impellente, ingovernabile. Si chiama dipendenza.
Assistere senza scampo al proprio sfacelo, al non esser mio di ciò che mi è assolutamente proprio .

venerdì 5 marzo 2010

C'è più Petrolio sparso nel Lambro...

Prima di leggere me, consiglio a tutti di leggere questo.

Ecco, bentornati. Adesso possiamo parlarne.
Io ho detto molte volte che Leonardo è un genio ma, sapete, un genio a forza d'esser genio può cominciare pure a stare sulle scatole, permettetemi l'eufemismo. Mozart, esempio facile, o Wagner, erano senza dubbio dei geniacci, ma stronzetti anzichenò. E antipaticucci. La lista sarebbe lunghissima.
Ecco, chi soffre della sindrome di Salieri ha bisogno di anni di disintossicazione e di rieducazione, o semplicemente di avere un po' di pazienza. Pazienza sulla riva del fiume, aspettando non il cadavere di un nemico, ma il più classico dei ribaltoni da clessidra: l'amore che si capofitta in odio.
Perché un genio già di suo, già nel suo esser geniaccio infame, che l'azzecca sempre, che vede sempre più chiaro degli altri, che dice sempre meglio - e più finemente - degli altri, le cose, qualunque stramaledetto argomento tocchi, dall'Isola dei Famosi al Muro di Israele, un po' (un bel po') ti demolisce. La sua costanza, pure, ti demolisce. Per quanto tu possa avere attese alte, lui ne è sempre al di sopra. E questo ti DEVE demolire, è chiaro. Non c'è via d'uscita, l'ammirazione prima o poi si ha da convertire in nerissima invidia, in atra bile rovente, in pregiudiziale partito preso contro, in questa-volta-proprio-non-sono-d'accordo, in ma-che-delusione-e-io-che-ci credevo-in-te oppure anche in questa-
non-me-la-dovevi-fare/dire. Tortuosi sono i percorsi dell'animo umano.

Ma, dannazione, Leo - e allorché scatta l'apostrofe diretta, il pathos sale di tono, se possibile - quando un genio è pure così (passami la parola) maledettamente divertente, è finita per chi vorrebbe districarsi dalla rete dorata dell'ammirazione. Il tuo pezzo sul presunto capitolo inedito di Petrolio in possesso di Marcello Dell'Utri, perfettamente (perfidamente) sincronizzato con il coro - ma tutto fuori dal coro - rispetto alla voce del gruppo del "Primo Amore" e dei pasoliniani di tutto il mondo uniti, sarebbe stato fantastico anche senza l'ultima riga. Stavi già vincendo dieci a zero, non c'era bisogno del gol da fuori area in rovesciata senza guardare. E invece no. Arriva pure il gol-capolavoro: "Massimo rispetto allo scrittore che ha buttato giù un capitolo finto di Petrolio, non vedo l'ora di leggerlo; spero che oltre Dell'Utri prenda in giro anche Pasolini, che la prima lettera di ogni paragrafo componga la scritta F O R Z A C A L V I N O, cose del genere".
E' una battuta, ma favolosa. Cantava un tempo Guccini "per la battuta mi farei spellare". Bene, io per la battuta in genere forse no, ma per una battuta così, sì, eccome. Anni di letteratura critica, di Pasolini contro Calvino, epitomati in una riga. Che fa pure ridere...

Fin qui, ha parlato l'entusiasta che è in me. Ora mi ricompongo, e cerco di argomentare.

Si dice spesso, con un facile Flaiano, che la situazione è grave ma non seria. Lo dice spesso Maurizio Costanzo, e la cosa mi mette i brividi. Tuttavia è vero. In questo paese la situazione (da tempo) è gravissima. L'esistenza, nonché il ruolo, di Marcello Dell'Utri, per esempio, la rendono grave. La morte di Pasolini l'ha resa (o l'ha manifestata per) molto grave. Il blabla dei giornalisti e degli pseudo intellettuali la rende più che grave. Ma non è affatto seria. E' una tragica, tragicissima farsa, una cialtronata tutta italiana, da capo a piedi. E che vi scorrano fiumi di sangue, ancora una volta, non fa che confermarne l'orrore da vaudeville dell'apocalisse, da circo sul limitar del mondo, da baracconata senza dignità.

Il "Primo Amore" ha di nuovo innalzato la bandiera della propria crociata - e io peraltro la condivido - per la riapertura del processo intorno all'uccisione di Pasolini, sotto la guida di Carla Benedetti. Hanno fatto benissimo, ma il casus belli qual è? Una bufala. Una boiata pazzesca che viene nientemeno che da Marcello Dell'Utri. E hanno elevato il proprio "All'armi!" con una seriosità degna non diremo di miglior causa, certo di miglior occasione.
Scrive Carla Benedetti: "Il senatore Dell'Utri, del Pdl, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, non dice da chi ha avuto quelle pagine, ma annuncia che verranno esposte il 12 marzo alla Mostra del Libro antico di Milano. Nel caso che la sua dichiarazione corrisponda a verità, non ci troveremo di fronte a un semplice scoop librario o filologico, ma - non dimentichiamolo - a un vero e proprio corpo di reato, quelle pagine essendo state trafugate o da ladri penetrati nella casa di Pasolini subito dopo la sua morte, oppure sottratte in altro modo da chi poteva avere accesso alle sue carte. E tante domande allora si riaprono". E ancora: "Ammesso quindi che il senatore Dell'Utri sia davvero in possesso di quelle pagine, esse non sarebbero solo un prezioso ritrovamento letterario, ma anche una miccia accesa, che potrebbe far saltare in aria un'intera struttura di potere. E soprattutto - come mi auguro - potrebbe indurre a riaprire tutto il capitolo, sia sulla morte di Pasolini, sia sulle lunghe connivenze che per tanti anni hanno blindato la verità su quell'atroce delitto, lasciando impuniti i colpevoli".
Questi sono solo due frammenti tratti da un dossier che al momento conta già sei o sette pezzi, postati sul prestigioso lit-blog "Il Primo Amore", e che sta crescendo velocemente di ora in ora, senza dubbio in modo assai meritorio. Meritorio, per esempio, perché lì si ripubblicano le pagine di un libro introvabile, scomparso anche dalle due Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze, che ispirò Pasolini e Petrolio. Un libro relativo al presidente dell'ENI Enrico Cefis, intitolato "Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente". Ma, continuo a dire, se da un lato è del tutto auspicabile che questa panzana serva a un fine civilmente importantissimo come far luce sulla tragica notte di Ostia, e magari anche su molto altro, dall'altro sempre di una panzana con ogni probabilità si tratta. Come sono giunte quelle pagine nelle mani di Dell'Utri? si grida. E' un corpo di reato, si grida. No, ahimè. Ci sono giunte, autentiche o apocrife che siano, pagando. Banalmente, biecamente, pagando. Fossero pure vere - e non credo che lo siano - non serve pensare ad altro che a uno zelante tombarolo, a un riciclatore di pezzi impresentabili, che tra un "Arbeit macht frei" da Auschwitz e una Gioconda, va in giro porta a porta (solo porte di case di lusso) per sentire "ahò signo', che interessa 'na cosetta inedita de Pasolini?"
Lo sfottò di Leonardo, nei confronti di Dell'Utri (e un po' anche nei confronti del "Primo Amore") è un promemoria salutare. Ricordiamoci sempre con che creta maleodorante stiamo pasticciando. Altro che miccia accesa per far saltare un intero sistema di potere...

Il pezzo di Leonardo secondo me è straordinario perché è l'articolo di qualcuno che ha conservato il senso dell'opposizione tra soldi e sapere. Ovvia? Non più tanto, ormai. Certo, di sòle se ne son sempre prodotte (pensate alla Donazione di Costantino!). Però un uomo come Lorenzo Valla gliela smontò, quella sòla, agli eruditi prezzolati del papa. Non abbastanza da demolire lo Stato della Chiesa, certo, ma abbastanza da coprirli di vergogna per un buon mezzo millennio. E anche solo se gli avesse rovinato la digestione, a qualche successore di Pietro, sarebbe stato ben fatto.
Ieri i ridicoli diari di Mussolini, oggi l'inedito di Petrolio, invece, non sono altro che "roba". Non c'è sapere in ballo. Contano perché costano, non costano perché contano. E si vendono a qualunque collezionista, purché abbastanza stupido e abbastanza ricco. Si vendono a un bibliofilo, che è l'esatto opposto di un amante dei libri, perché i libri valgono per quel che c'è scritto dentro, non per l'anno di edizione o le condizioni della copertina. Il bibliofilo è il più perverso tra i collezionisti: colleziona roba utile come se fosse inutile, anzi la fa diventare inutile. Un libro chiuso e intonso non è più un libro. Meglio sarebbe collezionare accendini finiti, tanto per dire.

Poi Leonardo è troppo buono, e a Dell'Utri concede persino un vicoletto di fuga, con l'ipotesi dell'inconfessato amatore del falso. Non dico che si sbagli, può pure essere - oggi va tanto di moda, nell'epoca dell'ipocrisia elevata a sistema - però secondo me è una lettura troppo nobile, il tipo non se la merita.
All'inverso - e torno sul nesso soldi/sapere - questo "caso" mi sembra abbastanza tipico di come il frastuono effimero del titolo a tutta pagina travolga ogni silenzio di riflessione, anche in coloro - intellettuali di professione - che più dovrebbero mantenere la cautela.
Intendiamoci: bene avranno fatto quelli del "Primo Amore" ad approfittare della cagnara mediatica per riparlare di Pasolini, del caso Mattei, di Cefis, di economia e criminalità, se questo è stato il loro pensiero. Ma quando tutta la notizia dell'inedito di Dell'Utri si sgonfierà, non ne patirà in qualche modo il contraccolpo anche la loro giusta iniziativa? Non si deve riparlare di Pasolini, Mattei, Cefis, in virtù del "ritrovamento" di Lampi sull'ENI. Bisogna riparlarne e basta. Se poi scopriremo che il testo è autentico, ma solo allora, parleremo anche di quello.

lunedì 18 gennaio 2010

Avatar, ovvero l'inaggirabilità del Marine (attenzione: spoiler)

Spinto da una bella riflessione del mio amico Matteo Nahum, provo a dire la mia sul film "del momento".
Non sapevo bene cosa aspettarmi, al di là della confezione (che pure mi ha deluso, perché quasi tutte le creature sono banalissimi travestimenti: cavalli con sei zampe, ma che sembrano cavalli; cani con sei zampe, ma canini assai; pterodattili alquanto pterodattilosi; leoni-pantere un po' dinosauro, ma poco, e così via; mi è parsa tutta una estetica molto figlia del Mercenario di Vicente Segrelles. George Lucas con la trilogia di Star Wars era anni luce più avanti, già alla fine degli anni Settanta), però l'ho guardato lo stesso, in fondo James Cameron è sempre stato un grande costruttore di spettacoli, e questo non è affatto un demerito. Se lo spettacolo è puro entertainment, benissimo, se invece vuol veicolare un messaggio, occorre fare attenzione alla natura reale di quel messaggio. Le buone intenzioni non bastano mica, sappiamo tutti cosa è lastricato di buone intenzioni...
Menziono sempre Spielberg, a tal proposito, che con Saving Private Ryan dichiarò di aver voluto realizzare un grande film contro la guerra, e che invece girò un film nel quale rimaneva soltanto, dispiegato al massimo, lo spettacolo pirotecnico della guerra come non s'era mai vista. Realistico come i dinosauri di Jurassic Park, ma un un bel po' più ambiguo.

La cosa che mi ha turbato fin dall'inizio, in Avatar, è la presenza, centralissima, di cui sembra la cultura americana non riesca davvero a fare a meno, del corpo dei marines. Corpo inteso come Arma e come Fisico. Protagonista e antagonista, infatti (non fatevi ingannare dalla dottoressa, lei non c'entra nulla, e non insegna nulla né al Buono né al Cattivo) sono due Marine, l'uno ipermuscolare e quasi infrangibile, l'altro senza più le gambe, ma come per miracolo bravissimo a imparare in fretta a muovere l'arma biologica che gli hanno dato in mano, l'avatar azzurro alto tre metri. E' un travestimento, un costume da infiltrato, un metodo per approcciare l'Altro? Sì, forse, ma è soprattutto un'arma che salta, corre, rotola, colpisce, si connette neurologicamente... Lo si vede benissimo la prima volta che il protagonista vi entra dentro. Pur senza addestramento, capisce subito come usarla, molto meglio dei suoi predecessori (che infatti erano "filosofi", antropologi, etologi, linguisti, non dei combattenti) e mi è sembrata molto in malafede l'insistenza sui piedi e sul ritrovato gusto per la deambulazione. In realtà l'Avatar si manifesta subito come un'arma che gli umani del laboratorio da soli non sono in grado di fermare.

Cambia tutto, insomma, nella fantascienza, ma i marines sono sempre gli stessi. Durissimi, atletici, equipaggiatissimi, stolidi, eppur sempre loro, immutabili, con le magliette mimetiche arrotolate sui bicipiti come a Guadalcanal, come in Vietnam, come in Iraq. Qualcuno dirà - lo stesso Matteo lo dice, e ha ragione - che qui finalmente i Marines sono i cattivi, il braccio armato degli umani tutti, la punta di diamante di altri cattivi in doppiopetto come le multinazionali ecc. ecc. Qualcun altro dirà che già in Alien 2 (letteralmente saccheggiato in Avatar) Cameron aveva dileggiato i marines, tronfi super-armati e spazzati via in quattro e quattr'otto dalle Creature di Giger. Ma le cose non stanno soltanto così.
Prima di tutto osservo un fatto macroscopico, e cioè che, alla fine, per battere un Marine cattivo, ci vuole un Marine buono, seppur "rinnegato"; i nativi da soli non ce l'avrebbero mai fatta. E questo già la dice lunga, al mio naso, in termini di implicita superiorità razziale. Non solo. Il Marine doma senza sforzo anche Toruk Makto, come solo a un eroe leggendario (mitico?) dei Na'vi era stato possibile.
Secondariamente, è verissimo che il ripetuto infierire delle superiori tecnologie umane contro la natura e i corpi dei nativi ha un effetto straziante, mai vi si aderisce o ci si immedesima, e richiama alla mente mille simili strazi, dallo schiavismo dei neri allo sterminio degli indios, fino all'Agente Orange del Vietnam e al Fosforo Bianco di Falluja, ma, appunto, cosa mai può significare l'happy ending? Matteo, ancora una volta giustamente, sottolinea quanto sia significativo il briefing in cui si dice che ci vuole un "attacco preventivo" per "combattere il Terrore con il Terrore". Quello sarebbe davvero il punto più prossimo a una aperta dichiarazione d'intenti antioccidentale, eppure cosa succede, nel film? Succede che la "natura" si ribella, e si allea con i Na'vi. E sapete cos'è questa? Non è semplicemente un happy ending obbligato. E' una mistificazione gravissima. Perché la Natura non prende mai posizione, e ha ragione la ragazza Na'vi quando lo ricorda al Protagonista (venendo poi smentita dal colpo di scena finale). Non ne faccio una questione di inverosimiglianza, sebbene vedere le tigri giganti e i Triceratopi-monstre che fanno polpette dei Robot e delle Astronavi mi sia sembrata una pacchianata, come se vedessi un leone sconfiggere a morsi un Panzer. No, la Natura contro la tecnologia non l'ha mai vinta in campo aperto, nel duello diciamo, e se schiaccia gli uomini lo fa in maniera indiscriminata, con un terremoto o uno tsunami o una valanga, non distingue tra chi la rispetta e chi la oltraggia. L'happy ending è una mistificazione perché vanifica tutto il presunto messaggio del film.
Se Cameron avesse davvero voluto farci star male mostrandoci le nostre colpe, lo sterminio doveva essere assoluto, fino alla fine. Na'vi massacrati fino all'ultimo, e il loro mondo ridotto a desolata miniera. Perché è così che va, così è sempre andata, in Africa, in Sud-America, in India, in Cina, ovunque i colonialisti hanno messo le mani. Se avessimo visto quello scempio senza pietà e senza redenzione, come ve ne sono stati per secoli e vi sono tuttora, forse saremmo usciti dal cinema sentendoci davvero in colpa, invece la Messa di cui parla Matteo è pericolosissima perché appunto comprende la catarsi, cioè l'assoluzione. Non produce consapevolezza, non produce presa di coscienza.