martedì 30 marzo 2010

Assistere al proprio sfacelo

Ho pensato spesso all'ultima terrificante frase del Processo di Kafka: "e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere" (così, nelle parole di Primo Levi).
Ma per fortuna no, non ti sopravvive niente. Niente, neanche la vergogna.

Levinàs allinea, sullo stesso piano, la vergogna, la nausea e il bisogno corporale (è Agamben a ricordarlo, in Quel che resta di Auschwitz). Perchè in tutti e tre i casi "facciamo esperienza della nostra rivoltante e, tuttavia, insopprimibile, presenza a noi stessi". Siamo nudi, e non vorremmo esserlo. Vorremmo fuggire, essere altrove, essere altro, anzi siamo altro, non riusciamo a capacitarci che quella parola sciocca, quella frase infelice, quella cicatrice repellente, quella deformità, quel rumore bruto, quella impertinenza assoluta, sia venuta a visitarci, e ci rappresenti così integralmente, spietatamente, irrevocabilmente. Prigionieri di una cella orrenda che sgomenta come fosse mai vista e insieme perché è consustanziale a noi.
E, ancora - sono sempre parole di Agamben - è "come se la nostra coscienza franasse e sfuggisse da ogni parte e, nello stesso tempo, fosse convocata da un decreto irrecusabile ad assistere senza scampo al proprio sfacelo, al non esser mio di ciò che mi è assolutamente proprio. Nella vergogna il soggetto non ha, cioè, altro contenuto che la propria desoggettivazione, diventa testimone del proprio dissesto, del proprio perdersi come soggetto".

C'è anche un'altra esperienza, nella vita, almeno nella vita mia, che possiede i medesimi connotati. Come nausea, vergogna, bisogno corporale impellente, ingovernabile. Si chiama dipendenza.
Assistere senza scampo al proprio sfacelo, al non esser mio di ciò che mi è assolutamente proprio .

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