sabato 13 dicembre 2008

L'amico riminese di Ezra Pound

Scrissi questo articolo nel marzo del 2000 per il supplemento culturale "La Domenica Specialmente" che curavo per un quotidiano di Rimini, le banalità didascaliche dipendono dalla sua originaria destinazione. Lo scrissi perché Federico Marchetti, un amico fraterno di mio zio, mi aveva tante volte raccontato di quel singolare personaggio che era stato suo padre, il capitano Averardo Marchetti, e a quel punto della vita mi sentivo ormai maturo, di anni, di letture, di vissuto, per riflettere a mia volta su quella storia.
Federico, mio zio, e un terzo loro amico, il dottor Abo Cardelli, furono del tutto involontariamente artefici di quello che sono oggi. Non lo seppero mai, non se n'avvidero mentre la mia metamorfosi avveniva, e forse nemmeno l'avrebbero voluta, ma la pasta molle eppur dinamica di un bambino reagisce agli stimoli potenti in modi sempre imprevedibili.
Federico era un appassionato studioso della Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano, competente in maniera stupefacente come sanno esserlo a volte i dilettanti: conosceva a memoria ogni quota, ogni reggimento, ogni graduato, ogni evento bellico anche minimo, aveva compulsato una biblioteca immensa di reduci, memorialisti, storici, esperti mili
tari e così via. La sua onnisciente passione, che significava anche fervido omaggio alla memoria del padre, pluridecorato di guerra, aveva contagiato mio zio e Abo Cardelli, perché loro pure appartenevano alla generazione dei figli degli uomini comandati da Cadorna, dal generale Capello e da quel cialtrone assassino del Duca d'Aosta, la cui Medaglia d'Oro al Valor Militare, eternata nel marmo di Redipuglia, grida vendetta non meno della decorazione a Bava-Beccaris, e solo come segno d'infamia dovrebbe restar lì fino alla fine dei tempi.
Quasi ogni anno questi tre amici, in varia misura nostalgici, dedicavano un viaggio alle alture isontine, o all'altopiano di Asiago, alla Carnia, alle zone sotto il Monte Nero o sotto il Pasubio, ai luoghi insomma dove si era combattuta la Grande Guerra.
Un viaggio che mescolava nel mazzo carte diverse a nome turismo enogastronomico, rimpatriata amicale, osservazione storica, fantasticheria commossa, pietas verso i defunti... E una volta, avrò avuto quindici anni pressappoco, mi portarono con sé, forse perché anch'io stavo abbracciando - con la smodata voracità dell'adolescente ignaro del mondo - la stessa passione, che per me però era solo erudita, archeologica, libresca. O forse mi vollero con sé perché capivano quanto, per un bambino timido e troppo chiuso in casa, un viaggio con tre simpatici gaudenti, lupi di mare e di terra sulla sessantina, potesse essere un bel percorso di iniziazione. Ma l'incontro sconvolgente con l'ossario di Oslavia mi avrebbe cambiato per tutta la vita. E questo loro non lo sospettavano.
Il pezzo che scrissi su suo padre, tanti anni dopo, non piacque a Federico, il quale si era fidato di me, mi aveva aperto la sua casa e il suo p
olveroso sottoscala di memorie, mi aveva mostrato foto e cimeli straordinari. Non piacque neanche a mio zio, lo so bene. Ma non potevo scriverlo in nessun altro modo.
Qualche mese fa, quasi insieme, mio zio e Federico se ne sono andati, l'uno dopo un lunghissimo calvario ospedaliero, l'altro improvvisamente, senza avvisaglie esteriori. Abo era morto poco tempo prima.
A loro tre, Alberto Bambi, Federico Marchetti, Abo Cardelli, al ricordo di quel viaggio che mi fece diventare uomo, e antimilitarista, e antifascista, a questa eredità per me così preziosa, dedico questo post.

Raccontare una storia, quando è la vera storia di un uomo, della sua famiglia, del suo lavoro e del suo tempo, di suoi amici e dei suoi ideali, non è affatto una impresa lineare, ma somiglia piuttosto alla riapertura di un vecchio baule, nel quale il cercatore di turno inaspettamente si trova di fronte mille scatole, una dentro l'altra.
Così questa, che è in primo luogo la storia di un uomo, comincia dalle pagine ingiallite di un registro di presenze, come se fosse, piuttosto, la storia di un luogo: il sipario si solleva all'alba del secolo scorso, nel 1905, in una Rimini irriconoscibile, all'incrocio tra via Dante e via Roma. Qui, in quell'anno, veniva inaugurato il Palace Hotel, un bell'edificio in stile liberty che per molti anni sarebbe stato uno dei più prestigiosi della città. Lo gestiva la famiglia Marchetti, pionieri tra gli albergatori della Riviera, quando l'idea stessa di turismo era ancora poco diffusa, perlomeno in Italia: la stessa famiglia avrebbe avuto in gestione, più tardi, l'hotel Villa Rosa, a Marina Centro.
Che i turisti fossero pochi e assai selezionati lo dimostra il registro: gli ospiti dell'albergo erano quasi tutti stranieri, i luoghi di provenienza sembrano una mappa della Belle-Epoque: Vienna, Parigi, Londra, Milano, San Pietroburgo... talvolta anche semplici firme raccontano delle storie. Per esempio raccontano quella di un generale russo, che ogni anno arrivava a Rimini in automobile con l'autista, la moglie, i bambini e una bambinaia. Uomo aristocratico e raffinato, lasciava i bambini al mare con l'istruttrice e ripartiva insieme alla consorte per visitare le meraviglia d'Italia, come i viaggiatori settecenteschi del Grand Tour, come Goethe e Stendhal. E ogni anno, regolarmente, spendeva più di quanto avesse a disposizione con sé, così che, tornato in patria, saldava i conti per posta. Ma nel fatale 1914 il generale dovette precipitosamente far ritorno nella Santa Madre Russia, richiamato dal deflagrare del conflitto mondiale, e sul registro una nota posteriore, aggiunta a lato della sua firma, avvisa, laconicamente, che il saldo non avverrà. Del generale non si seppe più niente, ma insieme a lui, che di lì a poco si sarebbe trovato, se pure sopravvissuto alle battaglie, di fronte al ben più imprevisto infuriare della Rivoluzione d'Ottobre, stava svanendo un mondo intero.
All'alba degli anni Venti, probabilmente nel 1921, e certo altre volte, fino al 1923, uno degli ospiti del Palace Hotel fu il grande poeta americano Ezra Pound, ormai da molto tempo europeo adottivo, in fuga anche da quell'Inghilterra dove aveva fondato il Movimento Imagista nel 1912 e il successivo Movimento Vorticista, tra i primi fenomeni dell'arte d'avanguardia del XX secolo. Pound allora si stava trasferendo a Parigi, dove avrebbe vissuto gli anni più intensi della sua esistenza, gli anni dell'amicizia con Joyce e con Eliot, gli anni in cui avrebbe fatto da maieuta all'Ulysses dell'irlandese e a The Waste Land dell'amico impiegato ai Lloyd's, soprattutto gli anni in cui avrebbe composto i Malatesta Cantos, di cui Luca Cesari ha dato nel 1998 una bella edizione per l'editore Scheiwiller.
Pound amò intensamente Rimini e il suo entroterra, ne studiò approfonditamente la storia, fu incantato dalla bellezza paesistica del Montefeltro, giunse infine a identificare Sigismondo Malatesta, in un semi-delirio a metà tra poesia e politica fraintesa, con il suo ideale di condottiero, e gradualmente a identificarlo con Mussolini.
E proprio a Rimini Pound incontrò un uomo per alcuni versi simile a lui, il capitano Averardo Marchetti, gestore del Palace Hotel nonché ex ufficiale due volte decorato nella Grande Guerra. In quel medesimo torno di anni, fra l'altro, Marchetti prese parte alla Marcia su Roma, e aderì gioiosamente al nascente fascismo, così come tanti altri ex combattenti come lui, confidando che davvero quel movimento avrebbe svecchiato la nazione come prometteva, facendo giustizia sommaria del "marcio parlamentarismo". Inutile dire che le simpatie mussoliniane li unirono.
Volontario nel '15-'18, Marchetti rimase un volontario tutta la vita, malgrado le gravi ferite che aveva ricevuto in combattimento, la prima volta sul Carso, l'altra sul Piave: seguì Mussolini a Roma, si offrì per la campagna d'Etiopia, e ancora, quasi cinquantenne, partì per la Grecia, dove trovò la morte nel 1940 per congelamento. In questo instancabile, indistruttibile vitalismo, dalla inevitabile conclusione tragica, Marchetti era forse il ritratto di un'epoca intera, quella alla quale dapprima Marinetti con con i suoi proclami futuristi e poi soprattutto Mussolini riuscirono a mettersi a capo.
E la figura del capitano Marchetti, che così calorosamente si era messo al servizio di Pound nelle sue peregrinazioni per biblioteche in cerca di documenti antichi, tanto da far aprire la Gambalunghiana di Rimini apposta per lui nelle domeniche d'estate, trapassò in molti scritti del poeta americano, anche a distanza di lunghi anni. Fu una sua frase, in special modo, a rimanergli scolpita in mente, entrando a far parte dei Cantos, il capolavoro di una vita, nel Canto XLI: "Noi ci facciamo scannar per Mussolini" (il che, poi, avvenne a un'intera nazione).
Pound rimase molto ammirato dalla tempra di quest'uomo tutto d'un pezzo, così energico e ardente nelle sue manifestazioni. Ancora molti anni dopo, nel libro Jefferson e Mussolini, scrisse una formula emblematica: "A parte l'uomo di Rimini, non mi pare di aver conosciuto fascisti".
Emblematica della tragica illusione che lo accompagnò tutta la vita, e che motivò, tra l'altro, la sua nefanda adesione alla Repubblica di Salò (pagata, dopo la guerra, con tredici anni di manicomio criminale), e cioè che la nobiltà d'animo, la generosità e il sincero desiderio di costruire un mondo migliore, fossero sinonimo di fascismo.


venerdì 17 ottobre 2008

Commentari alla miseria italiana

Ho già scritto altrove, e ripeto qui, e lo farò ancora, che le dichiarazioni rilasciate oggi dal sig. Roberto Maroni, disgraziatamente ministro della Repubblica Italiana, contro Roberto Saviano, sono il più basso, vile, vergognoso, scandaloso gradino dell'ignominia che questo paese da troppo tempo sta vivendo.
In particolare trovo indegna l'affermazione, come leggo su Repubblica on line, secondo la quale Maroni non riterrebbe «una buona idea quella di andarsene. Non mi pare ci sia certezza di evitare la vendetta camorristica che non ha confini». Se voi non ci vedete una allusione intimidatoria, io invece ce lo vedo, eccome. Lo Stato che lo dovrebbe difendere, dice a Roberto di non perdere tempo ad espatriare, perché tanto i clan lo possono colpire ovunque...
Maroni parlava a Napoli, davanti agli imprenditori campani, e quello non è un uditorio neutro né neutrale.
Ogni giorno sento notizie da far gelare il sangue. Migliaia di tonnellate di rifiuti che scompaiono da un giorno all'altro, e nessuno che si chiede - a parte se sia vero o meno, e non è vero - dove siano finiti, se per caso ne è stata controllata la pericolosità. Mezza Italia è piena di veleni sotto il tappeto (il capitolo La terra dei fuochi in Gomorra, per restare a Saviano, è allucinante) ma tutti esultano perché per via non ce n'è più. Che li respiriamo, li beviamo, che ci si appiccichino sulla pelle, che ci intacchino con gli ortaggi o la carne che mangiamo, di questo non frega niente a nessuno. Morivano come mosche negli anni Sessanta intorno agli stabilimenti del petrolchimico di Mestre, muoiono sempre all'Ilva di Taranto, muoiono in Campania con incidenze tumorali ben più alte che altrove, ma tanto... I padroni stanno nei loro salotti o respirano aria buona a Cortina, i poveracci prima di tutto vogliono un lavoro, e allora va bene così, continuiamo così, giù la testa e via, a sperare che il male non arrivi troppo presto.

Sento di bambini rom a cui prendere le impronte, sento la proposta di fare classi solo per i bambini stranieri, sento di città che costruiscono muri, e tutta una gran voglia di ronde notturne e di picchiare qualcuno, purchessia. «La coazione al pragma purché pragma», diceva Gadda deridendo l'idiozia mussoliniana, anche se non c'era niente da ridere. Sento rivalutare i soldati di Salò che fucilavano la loro stessa gente insieme ai nazisti e, maledizione, il padre di mia madre lo è stato, un soldato di Salò, è stato anche amico di quel macellaio che fu il generale Graziani: abbiamo addirittura una foto di Graziani con una dedica a mio nonno, a casa! Angelo del Boca inizia Italiani brava gente? ricordando le spaventose rappresaglie che seguirono al fallito attentato contro Graziani, nel '37 ad Addis Abeba. Poche pagine da brividi, che si dovrebbero leggere nelle scuole, ma purtroppo tra un po' manco ci saranno più, le scuole.
Tutti mi dicono, mi hanno sempre detto, che mio nonno era una persona straordinaria, un uomo buono e di grande cultura, e a me sembra assurdo che l'una cosa possa cancellare l'altra: lo so bene, era un militare ma un appassionato lettore, ho i suoi Nietzsche meditati e annotati con perplessità e perfino il suo Darwin, ho il suo Milton e i suoi Shakespeare, e i suoi Tragici greci, ho conservato il suo Cervantes e i suoi Cechov, il suo tutto Platone, e tanti, troppi Papini, ma in un toscano classe 1896 ci sta.. Soprattutto era uno studioso di Dante, in prigionia faceva delle lezioni sull'Inferno sul Purgatorio e sul Paradiso ai suoi compagni, e di certo là ne sapevano qualcosa, in particolare di inferni e purgatori, tutti i suoi soldati gli erano affezionati, ma questo può bastarmi? Io non so niente di lui durante la guerra, non so cosa abbia fatto, però so che i partigiani erano suoi nemici, e so che i partigiani venivano passati per le armi. E so, lo so, che lui era un soldato, lo era da una vita, aveva fatto anche la Prima Guerra Mondiale, aveva fatto Caporetto, a quei tempi i militari vivevano sempre in divisa, anche a casa. La prima volta che mio nonno si tolse la divisa fu al termine dell'ultimo giorno in cui la indossò, dopo quella che lui e gli altri come lui consideravano la «disfatta», non certo la Liberazione. La baciò, quella divisa, mi raccontano, e la mise nell'armadio. Come un abito talare.
Un soldato buono, e colto, non è per questo meno un soldato. Spero tanto che sulle mani di mio nonno non ci sia stato sangue di partigiani, ma non mi sento di escluderlo. E allora del suo Dante - che è anche il mio Dante, perchè proprio sulla sua edizione incredibilmente annotata della Commedia quasi ho imparato a leggere, sfogliandola e risfogliandola fin da bambino, ammirato del formato imponente e delle pagine ingiallite, dell'inchiostro vecchio, della sua grafia antica, delle citazioni magniloquenti da Filomusi Guelfi, delle tavole tetre, carnali e sanguigne del Doré - non mi importa più. Preferisco Fenoglio, allora. Preferisco qualcuno che si immagina come quell'ultimo partigiano che veglia e fuma nascosto sul crinale di un monte gelato, sapendo che lui lassù ha un senso fino a quando vi saranno fascisti.

Sento ogni giorno di operai che muoiono come al fronte, e qualche sera fa, in albergo a Vergato, dove insegno alle serali, mi è successo di far delle chiacchiere con un paio ragazzi che mi hanno offerto una birra. Uno di loro era sudamericano, l'altro del bellunese. Veniva da Erto, uno dei due paesi arroccati in alto sul Vajont, un luogo che tutta Italia dovrebbe visitare: è la nostra Caporetto senza Vittorio Veneto, è l'epitome della nostra storia, e ci son voluti trentaquattro anni e il cuore e il genio di Marco Paolini perché qualcuno ce la raccontasse davvero. Arroganza, miopia, dané, corruzione, devastazione, sfruttamento cieco, un popolo che si rimbocca le maniche e lavora bene, tira su in pochi anni la diga a doppio arco più alta del mondo, poi una catastrofe, migliaia di morti innocenti, alla fine tutto nel dimenticatoio. Oggi la gente, mi diceva quel ragazzo, va a vedere Erto da quando c'è stato il film, quel brutto sciapo film di Martinelli, soprattutto sapendo che ci vive Mauro Corona. Le cose là vanno meglio, si aprono ristoranti e rifanno le case. Ma lui, intanto, era lì, lontano da casa a lavorare per Trenitalia, e comunque lo sviluppo non è sempre detto che sia cosa buona: ho detto bisognerebbe visitare il Vajont, ma come si visitano le Fosse Ardeatine o Auschwitz. In tutta franchezza, mi rivolta lo stomaco l'idea che dove è successa la più spaventosa tragedia civile del dopoguerra italiano, la gente ci vada a far del turismo perché un uomo di lì, singolare e certo anche talentuoso, è stato ospite in tv alle Invasioni barbariche o a Domenica In.
Avevano appena finito di lavorare in un cantiere ferroviario lì nell'Appennino, quei due ragazzi, e la mattina dopo sarebbero ripartiti per un altro, verso Pistoia. Pensavo con angoscia a questa gente sradicata, che non sai mai da dove viene, come erano i soldati nelle trincee del Carso, questi operai che di giorno son sempre via tra i monti, e al massimo li vedi la sera in un bar, da una parte come fossero lebbrosi, o nell'entrata di un alberguccio di paese, a bere, stravolti dalla fatica, perché un po' di birre tirano via tutta quella polvere e ammorbidiscono le braccia e le gambe. Li pensavo tutto il giorno a lavorar tra macchine assassine senza protezioni, tra oggetti sospesi, morse, elettricità, pietre, acqua, esalazioni, ogni cosa potenzialmente è letale. Oggi a Ragusa un ragazzo è morto cadendo in un silos per il cioccolato. Io ci sono stato, laggiù. A Modica, nel Ragusano, il cioccolato è una tradizione, un prodotto di altissimo pregio. Questa morte è particolarmente atroce... Una cosa così buona, che piace a tutti, che la gente quand'è golosa o solo per iperbole a volte sogna di farci il bagno, e tu ci crepi. Non è solo atroce, è peggio, perché sembra una barzelletta. Dietro ai nostri viaggi in auto o in treno, dietro ai nostri appartamenti nuovi , dietro perfino ai nostri sfizi gastronomici, c'è sempre qualcuno che muore.

Sento giornalisti senza dignità parlare di "salvataggio" per l'operazione criminale e dissennata di Alitalia, sento dipendenti dello stato come me, che lavorano in condizioni spesso disperate, venire ulteriormente vessati, umiliati, derisi, mandati a spasso. Un ministro senza esperienza e senza vergogna che ammette di aver fatto l'esame di stato a Reggio Calabria, dove notoriamente passavano tutti, perché "aveva fretta", e poi come un burattino nelle mani del padrone demolisce la scuola mantenendo l'occhio vacuo.

La parte embrionale di questo post l'ho pubblicata su facebook. Scrivere tutto ciò su un social network dove la gente fa incontri, si corteggia, fa rimpatriate, scherza, gioca, non ha alcun senso, ma ci dice qualcosa della nostra miseria: io non ho un altro posto dove scriverlo, e non potevo starmene a tacere un'altra volta.

sabato 5 aprile 2008

Benedetto Benedetti


Benedetto BenedettiLa signorina Notte (Guaraldi, Rimini, 2007), postfazione di Giampaolo Proni


Benedetto Benedetti è, come si usa dire spesso ma spesso a sproposito, una forza della natura. Qui lo dico con cognizione di causa. Io lo conosco da poco meno di dieci anni, ossia da quando, giovane redattore delle pagine culturali di un quotidiano della provincia di Rimini, ebbi la fortuna di leggere e recensire due suoi racconti, L’invornita e La buona sposa, (poi confluiti in questo bellissimo La signorina notte, uscito a dicembre 2007 per i tipi di Guaraldi grazie alla sottoscrizione di venticinque esponenti della cultura romagnola, tra cui Sergio Zavoli, Paolo Fabbri, Piero Meldini, Giampaolo Proni, e molti altri), e di conquistare per il nostro foglio alcuni straordinari pezzi-ritratto di Pasolini e di Fellini, cose degne di ben più alta sede, che lui distribuiva con somma noncuranza, come un vero aristocratico dello spirito che proprio non riesce ad avere pensiero per l’accumulazione, il risparmio, e persino per l’oculatezza.


Di quello pasoliniano, lunghissimo, impubblicabile, profondissimo, illuminante, ne feci, ricordo, un mini-inserto di due pagine affiancate, una di quelle operazioni del tutto anti-giornalistiche nelle quali riuscivo solo io ancora a credere, illuso com’ero che dei quotidiani contasse il contenuto, e se il mio direttore la lasciò passare, tale uscita, fu perché tutti, al contrario, giudicavano le pagine culturali ininfluenti e inoffensive. Eppure, nei tre anni e più che trascorsi a lavorare in quella testata, e dove combinai alcune cose non disprezzabili, non pubblicai mai nulla di meglio. Con il senno di poi, mi rendo conto che lo scialo di quella gemma fu in pieno stile benedettesco. Anch’io non cercai di tesaurizzarla, magari facendola uscire a puntate, né di ridurla a misura, tagliandola sul letto di Procuste della nostra povera griglia, entro il miserabile aut-aut delle tremila-cinquemila battute. Uscì, semplicemente, un giorno qualsiasi, manoscritto nella bottiglia, incontro al suo destino. Quanto a me, avevo capito più Pasolini così, che in anni di corsi universitari.


Il libro di Benedetto, a lungo atteso, a me pare un libro formidabile. Disceso come Guerra nella Rimini di Amarcord dagli aspri rilievi del Montefeltro, cresciuto in «un paese di lanterne magiche», Perticara, all’ombra della misteriosa, arcana miniera di zolfo, dopo una vita dedicata al giornalismo, alla critica musicale, alla sceneggiatura, al cinema, eccolo finalmente al romanzo. Può sembrare di primo acchito una lettura molto difficile, quasi rondista in certi capitoli, eppure scoppietta come un pugno di castagne sul fuoco, è fitto di accensioni ed esplosioni irresistibili. Raramente il pasticcio tutto rurale di folklore e religione, la memorialistica e l’erudizione, l’aneddoto familiare, il temps retrouvé, la curiosità del poligrafo viaggiatore, registratore di fatti e detti memorabili, l’inclinazione alla visionarietà dell’auscultatore di luoghi in prospettiva, la provincia e la città, si sono fusi in un magma così felicemente complesso. Nel Savinio di Ascolto il tuo cuore, città accadeva qualcosa di simile. E non ho mai letto nessun altro capace di rappresentare l’estrazione dello zolfo come un incontro-scontro tra la forma mentis della Vecchia Europa e del Nuovo Mondo americano (come accade qui alle pagine 38-44). Nabokov, sì, Nabokov c’era riuscito, ma lui aveva messo in scena una bambina capricciosa e lubrica e un professore emigrato ossessionato dalla perduta gioventù. La metafora, permettetemi, era assai più facile.


Dirò una cosa forte, ma in cui credo: Benedetto mi sembra il primo, dopo la (troppo) lunga stagione dei nipotini di Gadda, che non fa del gaddismo volontario-velleitario. È il contrario del giovane Carlo Dossi, che già a diciott'anni scriveva libri letteratissimi e pareva aver già visto/vissuto/letto tutto. Lui non è proprio un enfant-prodige, con tutto il retrogusto di finzione, di esibizione e di coercizione familiare (Dossi escluso, s’intende) che ciò comporta, anzi: il suo mondo di parole/storie/sensi è così ricco perché dentro 84 anni vissuti con quella curiosità, quella voracità, quella incredibile facoltà mnemonica (fino a poco tempo fa Benedetto sapeva a memoria, oserei dire, tutta la letteratura italiana novecentesca, i cui protagonisti, specie romani, ha conosciuto e frequentato a lungo, e non poca dei secoli precedenti: nessuna occasione era inadatta al recupero di un’ottava ariostesca, di un passo del Belli o di Basile, di una frase di Bassani o di Moravia), ci sta un universo intero.


Di esordi tardivi la nostra maggior prosa romanzesca non è certo avara - penso a Tomasi di Lampedusa, a Meneghello, a Manganelli, a Satta - ma questo è davvero, anche dal punto di vista anagrafico, eccezionale.


E quando penso a ciò, sconsolato forse un po’, mi consolo con il sottotitolo nietzschiano del blog di un amico lettore e critico, Luca Tassinari, un motto credo di Aurora che recita «non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente frettolosa». La gente frettolosa, in questo tempo frettoloso, ha avuto tutto, e ha portato tutto alla rovina. Non le spetta più alcun riguardo. Questo libro è per chi vuol riconquistare il gusto di una lingua che è colore, sapidità, ritmo, suono, e soprattutto vita. Non ci sono effetti speciali che reggano al confronto.


Post scriptum settembre 2008:


La signorina Notte ha vinto il Premio Frontino Letteratura 2008. Non è un grande premio, ma è molto meno compromesso con le laide trame dell'editoria di tutti quelli più prestigiosi, e in ogni caso, per un libro praticamente semiclandestino, è un grande risultato.



martedì 26 febbraio 2008

Ennueg

Seduto sull'autobus, fermo davanti a Palazzo Re Enzo, mentre la gente sciamava fuori e dentro dal 20, guardavo i passanti sul marciapiede. Io l'ho sempre preso poco l'autobus, ma ultimamente mi capita spesso, e trovo che sia un mezzo curiosamente metropolitano. Soprattutto perchè è come una spugna, si impregna e rilascia, si impregna e rilascia, è permeabile. E' la cosa più vicina che ci sia all'andare in giro per strada a piedi, e non soltanto per il sovraffollamento che spesso ti impone. Anzi, il metrò gli somiglia solo nella calca, non nel fatto di essere così simbiotico con la città, chiuso come se ne sta nel suo intestino sotterraneo..Sul bus non puoi far altro che guardare in giro, guardi le facce e le mani e i vestiti, guardi fuori e poi dentro, e capisci che non c'è un fuori e un dentro definiti. Dentro e fuori si rimescolano di continuo.
L'altro giorno davanti a Palazzo Re Enzo c'erano, come sempre qua a Bologna, un mucchio di studenti, e in generale tanta gente giovane. C'erano anche tante signore di mezza età o anzianotte, con boccoli borse e seni straripanti, alte tutte più o meno uguale, ma quelle sembrano sempre uscite in incognito dal collegio, preoccupate di tornare a nascondersi per il coprifuoco. Bologna in centro è soprattutto una città di under40.E li guardavo, e fra la calca è spuntato un tipo singolare. Capelli lisci lunghi e neri, ma radi e come deboli, e dall'attaccatura un po' troppo alta per non denunciare una calvizie ben avviata, occhiali quadrati con una montatura scura anni Settanta, barba e baffetti da studente marxista-leninista, forse trent'anni o forse di più. Era piccolo di statura, più o meno quanto le signore, e indossava una giubba militare, da reduce del Vietnam.
Non so scegliere la parola giusta per indicare la sua malattia, ma credo fosse un qualche tipo di spasticità. Camminava con fatica, ogni arto recalcitrante, ogni passo era come ritrovare il senso di un corpo che non è un organismo ma un'accozzaglia di parti anarchicamente indipendenti o peggio ribelli. Già stare in piedi non doveva essere affatto scontato. Nel tempo che il bus è stato fermo a imbarcare e sbarcare persone, lui ha arrancato davanti al mio finestrino, coprendo forse tre o quattro metri. E io pensavo, strizzando gli occhi come davanti a troppa luce, indiscreto voyeur dalla commozione a buon mercato, a quanto orrendamente grande diventa il mondo, a quanto intollerabilmente larga è piazza Maggiore, a quanto infinita è via Rizzoli, se ti muovi in quel modo.
E allora, mentre una folla di zainetti colorati, di cellulari strepitanti, di borse da shopping con i loghi di benetton o sisley o chissà che altro invadevano il bus, ho sentito - come spesso mi capita quando mi aggiro solo e malinconico per questa città di studenti - ho sentito sbattermi sulla faccia l'arroganza della giovinezza, l'arroganza della salute, l'arroganza della felicità.