giovedì 22 luglio 2010

La vita privata


Stavo pensando, l'altra sera, mentre chiacchieravo con un caro amico che mi rimprovera perché scrivo troppo poco, al singolare paradosso contenuto nell'espressione "la vita privata". Di solito, ciò che si indica è un ambito squisitamente circoscritto e spesso difeso con tenacia, o comunque tutto quanto ci appartiene in modo più profondo e risentito. Quasi sempre, infatti, si parla della tutela del privato, o si proclama che certe questioni sono questioni private. Di questi tempi, la protezione della privacy nel nostro sciagurato paese ha assunto forme tragiche e farsesche insieme, e non vale la pena spenderci parole.
Ma, criminali a parte, e politici correi che intendono tutelarli, per le persone comuni comunque la privatezza è sinonimo di intimità, di valore tout court, o perlomeno di un valore che noi - suoi possessori - giudichiamo non negoziabile. Se io ho una vergognosa passione segreta per una prassi che il mondo giudica impresentabile o solo sciocca, come collezionare tutte le penne o le matite che ho usato per scrivere dall'infanzia a oggi (e so per certo di qualcuno che ha siffatto feticismo, ma non sono io, dio me ne guardi), ebbene quello è il mio "privato", me lo tengo privato, e nel mio sancta sanctorum di bambino non cresciuto soddisfo a volontà un feroce principio di piacere.
Accade però che possa darsi anche il contrario; che talvolta, cioè, "la vita privata" sia soltanto la vita intesa come privazione, in primo luogo di se stessa e di ciò che la qualifica maggiormente, di ciò che dovrebbe darle valore. Ma intendiamoci: non penso solo alla vita privata "di" qualcosa, depauperata, defraudata, spossessata di un oggetto d'amore o di una fonte qualsivoglia di gratificazione. Fosse questo, sarebbe comunque doloroso, e tuttavia comune, comunissimo, cosa di tutti, sospetto.
No, talvolta - ed è credo l'occorrenza peggiore - la vita privata è privata anche della possibilità di dirsi, di raccontarsi, di esprimersi, o al limite di dichiararsi in quanto tale. E' privata della facoltà (cioè della libertà) di rendersi pubblica. Costringe alla segretezza, non volontaria come quella cui alludevo prima, bensì imposta ed eterodiretta; costringe all'opaco, alla reticenza, condanna all'incomprensione anche da parte delle persone più care e vicine, con le quali non puoi parlare, e che di conseguenza non possono capire le ragioni dei tuoi comportamenti. Quando la tua vita privata è ostaggio di qualcuno che per proprie convenienze decide di farti vivere nell'ombra, e fino a quando glielo permetti, essa è davvero privata in questo solo senso, orribile, non nell'altro convenzionale e in fondo confortevole. Semplicemente, non la possiedi più. E nulla varrebbe a redenzione di questo stato di cose, tanto meno un banale, volgare epicureismo. Anche se in quell'ombra si consumassero delizie paradisiache. Tanto più che su qualunque delizia paradisiaca stinge ben presto l'agrume, se ci si sente precari, abusivi, non riconosciuti, non accettati.
Mi viene in mente spesso, come una memoria d'incubo, una pagina bellissima del Consiglio d'Egitto di Sciascia, sulla solitudine spaventosa, assoluta, dell'uomo torturato. E penso spesso che è la medesima solitudine del clandestino.

1 commento:

sergio garufi ha detto...

io non vorrei privarmi del piacere di leggerti :-)