Sarà pure scontato ma se oggi mi guardo indietro e penso a quel che è successo mi dico che la vita è incredibile. Mica solo la mia, quella di tutti. Però a me fa specie la mia.
Nel bel mezzo del momento più depresso e frustrante della mia vita lavorativa, cominciato peraltro a sorpresa da pochissimo, il 1 settembre, quando il Ministro dell'Istruzione ha finalmente deciso che potevo dedicarmi all'insegnamento, e mi ha calciato a Imola, a badar diciannove più ventisei (più varie ed eventuali) belve dagli undici ai dodici anni, ebbene proprio lì, nel mio giorno libero, il giovedì, si è invece verificata l'occasione più alta della mia "carriera" accademica. Una cosa che, per piccina e senza conseguenze che sia, potrò ricordare sempre con orgoglio.
Insomma, ieri pomeriggio io ero nella Biblioteca del Dipartimento di Italianistica, dove ho passato sette anni da studente e altri sette da dottorando/postdottorando ecc. ecc., seduto a un tavolo, con davanti schierati tutti o quasi i prof. del dipartimento, i ricercatori, gli assegnisti, i dottorandi, i miei colleghi e amici, più un mucchio di studenti. E a fianco a me c'era il professor Angelo Raffaele Pupino, il presidente della MOD, l'Associazione per lo Studio della Modernità Letteraria, cioè l'accademico più potente d'Italia, il cui ultimo libro su Manzoni stavamo presentando (Manzoni. Religione e romanzo, Salerno, Roma, 2005).
E oltre a Pupino, al direttore del Dipartimento prof. Anselmi, e a due rodati manzonisti come il prof. Luciano Bottoni e il prof. Alfredo Cottignoli, a quel tavolo c'era seduto Ezio Raimondi. Il più grande critico letterario vivente, uno dei protagonisti assoluti dell'intellettualità del Novecento, il maestro di tutti.
Raimondi, che oltretutto è il massimo interprete di Manzoni, ha 83 anni compiuti, e ancora oggi è commovente. E' solo fisicamente più debole di un tempo, la sua nobile alta figura si è incurvata, ma l'ala del suo cervello resta quella di un'aquila reale. Ha cominciato a parlare ed è andato avanti per un'ora e venti, e se voi aveste registrato e stampato quello che ha detto, ci potevate fare un libro, senza correggere neanche una virgola. Non solo dicendo cose magnifiche per vigore, pertinenza, precisione, citando i passi a memoria, ma dicendo cose di una bellezza da togliere il fiato. E io ero lì, allo stesso tavolo, che lo guardavo, e pensavo che dopo toccava a me. Ma non mi sentivo male, i suoi interventi sono selve incantate come quella del Tasso di cui lui è stato un formidabile lettore (mi ha insegnato lui, con quel memorabile saggio di centrotrenta pagine che apre la Gerusalemme liberata in due tomi della BUR, a capire che immenso scrittore può essere un critico), ti perdi dietro a lui, e vivifica tutti. Infatti poi l'ho detto, quando, scemato il lungo applauso, un applauso autentico, grato, (perché un uomo come Raimondi non lo fabbricano mica più, ed è un dono ascoltarlo), il microfono è passato a me, che sono uno manco strutturato, e nessuno sapeva che lavoro su Manzoni, ed ero lì come esordiente assoluto, incomprensibile outsider, con tutti i fucili puntati addosso.
Beh, sapete che vi dico? Che parlare a braccio, improvvisare un intervento dopo un Raimondi anziano e struggente, inarrivabile ancora oggi come cinquant'anni fa, sarebbe stata dura per chiunque. Io me la sono cavata benissimo. Non stando ai pareri degli altri. L'ho sentito io, che è andata così. Ero tranquillo, lucido, non c'era più tempo né posto per la paura. Dopo una simile dimostrazione di onnipotenza, ti accorgi che è stupido e meschino (più ancora che inutile) cercare di primeggiare o anche solo di far bella figura. Le belle e le brutte figure sbiadiscono, la serietà del lavoro è l'unica cosa che conta. Siamo lì per confrontarci, per far passare delle idee, non per far la ruota come i pavoni. E io questo dovevo fare, questo ho fatto.
E chiudo, scusate se l'ho fatta lunga, riportando solo una delle frasi di Ezio, tanto per dare un'idea della qualità poetica del suo discorso. Parlava dell'uomo Manzoni, del suo io sdoppiato, tormentato e nevrotico, combattuto tra ragione e fede, della sua intelligenza lucidissima di analista del male e della sofferenza, del suo pessimismo radicale, e lo ha detto così: "mentre uno rifiuta le ombre, l'altro è dentro le ombre".
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