Io sono davvero un uomo malato. E sono davvero un uomo malvagio.
Credo l'ho capita la prima volta la natura del male che mi abita, che mi tormenta, solo qualche giorno or sono, a una brutta mostra di pittura che ho incespicato in rincasando.
Un vico fetido, una spalancata bocca di garage o sottoscala, ma triste come bocca senza denti, e dentro una seggiola di legno e un vecchio tanghero a oziare tra i mali prodotti del suo mal tempo e di quelle manacce contorte dall’artrite come tronchi d’ulivo. Io quando visto l’apertura e la stanza luminata a schiaffi da una lampadina impiccata solo al suo filo io digrignato i denti e stretto i pugni ficcandomi le unghie nei palmi lo faccio sempre quando qualcosa non mi piace. Buco sempre i guanti li lacero devo sempre ricomprarli. Se la gente mi vede farlo si spaura dicono sono aggressivo. Come se li facessi qualcosa, ma mica faccio niente, solo lacero stoffa. E digrigno. Ho i denti forti, mica come quei vecchi dalle bocche mencie, tutti gengive rosse e bolle di saliva. Ma divago, e invece devo no. Devo tener stretta la presa, morder più forte l’argomento, unghiarlo meglio.
Croste i quadri, croste con tinte dozzinali sulle croste, che però non erano tutto. C’erano delle cose, disegnate, sopra. Come sempre, purtroppo, quando gli uomini sciupano il bello del nonfatto con l’immondizia dei loro ghirigori sghembi. Ma queste invece interessavano.
Allora ho entrato. Lui mi sta guardato non molto di sospetto né troppo di curioso. Pittore, pensa sono bravo.
Dentro puzza di vernice acquaragia segatura vino cattivo. Mi ho sempre chiesto perché pittori non sporchino di loro merda tele e poi spalmino. Meno tempo perso con i colori, meno puzza, e poi meglio il monocromo. Io quando le volte che soffro molto e perdo tutto da dentro con tanto sangue nero poi spalmavo tutto in giro per la camera, mi calmava. Non sentivo più l’altro odore.
Ma divago, e invece devo no. Pingeva draghi, lui. Pingeva sempre e solo tutti draghi, in tante pose e forme diverse. Ma solo draghi. Code, zanne, artigli. Denti, unghie. E fuoco.
“Perché pingi draghi?” volevo chiedere. Ma paura di parlare. Sempre avuta. Paura del fuoco.
Lui vede, forse capisce, gli occhi lucidi e grassi di un pesce che agonizza sul fondo della barca, ultimo guizzo. Si alza dalla sedia con un bastone che ha lì a fianco, dice qualcosa che non capisco o non sento, passa lontano che più può e fila verso i gradini dell’entrata, in un momento è in strada, vecchio atletico.
Ne prendo qualcuno, li strappo dalle catenelle che pendono dal muro lebbroso come in una sala di tortura, butto in terra i cavalletti ringhiando senza volere. Qualche tela la squarcio senza volere con le unghie. Sono troppo forti le unghie per questa tela così fina sembra carta si sbrindella senza volere.
Tornato a casa, mi ho messo a guardarli per tante tante ore. E capito, finalmente. Capito il male lungo la schiena, quel male che al mattino sembra avere mille pezzi di vetro piantati nelle ossa. Sono le punte, che premono per uscire. Capito i guanti sempre rotti, i denti così forti. Capito la paura di dire. Capita la voglia di rovesciare le cose, quando non mi piacciono, con un gesto che mi monta spontaneo, è come una scossa, un imbizzarrimento. È un colpo di coda, che cerco. Ma la coda ancora non ha cresciuto. Solo il male, giù in fondo al corpo. Brucia come fuoco, grida come fuoco, e così anche nella pancia, anche se sto di giorni senza mandar giù niente. È fuoco, allora. Tutto dentro, tutto male.
Lo so, nascere è dolore, e io sto nascendo da me stesso, e mi spingo fuori con le lacrime agli occhi ma guadagno pochi millimetri al giorno.
Ma almeno ora ho i quadri. Almeno ora so dove sto andando. E quelle due grandi cose nere, come due alveari gonfi, pulsanti di violenza, dall’odore atroce, che ho sulle scapole, finalmente non mi fanno più paura. Ci sono le ali, dentro.
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3 commenti:
Non preoccuparti, qualcuno che legge il tuo blog c'è. "Mihi satis sunt pauci, satis est unus, satis est nullus". Questa pagina narrativa è stupefacente. Leggendo le prime righe pensavo che fossi impazzito, o che ciò che stavo leggendo fosse una di quelle traduzioni fatte in automatico da appositi programmi, con i risultati più assurdi. Poi mi sono accorto, invece, che si trattava di una sperimentazione letteraria del tutto nuova, di un'inventività assoluta e debordante. Devi assolutamente scrivere un romanzo con questo stile. Una specie di nuovo Pizzuto, di nuovo D'Arrigo, o di Folengo postmoderno.
Leggo in grave ritardo il tuo commento, Matteo, e ti ringrazio moltissimo. Vorrei dire che non merito tanti elogi, ma così facendo denigrerei il tuo senso critico, e mi pare che fare due scortesie in una sia troppo. Arrossisco.
Molto molto bello. Ho fatto bene a seguire i sassolini lasciati da Tassinari.
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