venerdì 3 aprile 2009

Francesco Ferranti - Barnices


I nuovi lavori che Francesco Ferranti ha realizzato e raccolto per questa sua prima personale recano il segno di una importante discontinuità con il passato. Singolare, non sottovalutabile, il fatto che un artista così dotato, così convintamente - se non orgogliosamente - catafratto nella propria poetica, decida finalmente di presentarsi in autonomia, senza più al fianco nessuno dei consolidati compagni d’avventure come Francesco Pasculli o Alessando La Motta, con quadri che marcano non una conferma del percorso seguito fino a oggi, anzi che affermano una sorta di nuovo inizio.
Ferranti con questo Barnices ­– parola spagnola che significa vernici ­– opera, a volerla dire tutta e subito, la propria prima simbolica discesa in città.
Città che rappresenta il luogo e l’immagine del moderno, la dimensione del contemporaneo, ora come all’alba del XX secolo, quando la metropoli costituiva la maggiore
novità socio-culturale, ma anche la fonte dei più intensi choc percettivi, per gli abitanti dell’arretrata Italia di campagna.

Chi si metta di fronte alle opere qui raccolte, non faticherà a scorgervi i profili, estremamente appiattiti, privati di tridimensionalità, ridotti a puro segno, di una foresta di palazzi convertiti in mere griglie, ossia in quella immagine base della modernità che è il reticolo di carta millimetrata, quella a cui Mies van der Rohe si ispirava per i suoi insuperati grattacieli, come il Seagram Building o le torri dei Lake Shore Drive Apartments.

Un celebre architetto postmoderno, Rem Koolhaas, nel suo libro Delirious New York ha scritto: «Manhattan è il prodotto di una teoria non formulata, il manhattanismo, il cui programma è vivere in un mondo completamente fabbricato dall’uomo, vivere dentro la fantasia… l’intera città è diventata una fabbrica di esperienze artificiali, dove il reale e il naturale hanno cessato di esistere». Oggi, che il manhattanismo globalizzato fa sorgere torri di acciaio e cristallo in ogni luogo del mondo, cancellando i diversi stili costruttivi, annullando con l’aria condizionata le specificità climatiche, omogeneizzando i luoghi e i modi del vivere secondo esigenze razionali di spazio e tempo, nessun artista può ritenersi estraneo a tale fenomeno.
La discontinuità di cui si diceva è per l’appunto in questo faccia a faccia di Ferranti con una dimensione, quella urbana, che non gli era mai appartenuta: questo pittore, terricolo e terragno quant’altri mai, questo pittore di materiali crettosi, di spessori e incisioni fittamente lavorate, questo pittore di grumi e accumulazioni cromatiche che, sempre, rimandavano a una idea di naturalità originaria, questo pittore istintivo disceso dai magni lombi di un Morlotti o di un Mattioli, ha azzerato il paesaggio, la sua musa perenne, e ha quasi eliminato la materia e il colore.

Come trasformazione è affascinante, non priva di qualche tratto traumatico, quasi che la predominante tonalità del grigio rimandasse a un mondo tutto ferroso e cementizio. Ma, se trauma c’è, non è rimosso: si tratta di una scelta di poetica molto consapevole, rintracciabile in ogni aspetto di questi lavori, dichiarata fin dal titolo. Ferranti, da pittore classico, da ultimo cantore del territorio, si fa qui radicale modernista: usa non più colori bensì vernici, che è parola eminentemente industriale; cosparge le tele di gesso; disegna con la biro e con matite, altri oggetti estranei alla tradizionale panoplia dell’atelier; ritaglia pezzetti di metallo arrugginito con scritte o lettere e li incolla a suggerire insegne o civici, come in una forma di collage lontano mille miglia dai primi esperimenti, ancora in qualche modo raffinati, dei cubisti e futuristi che disponevano sulla tela pagine di giornali letterari, di «Lacerba» e della «Voce». Inoltre, lavora per variazioni sul tema, cioè rifugge dal mito, ormai tramontato, dell’originalità dell’opera d’arte, e costruisce una serie di dipinti – i quindici pezzi qui raccolti – assemblando e riassemblando pochi elementi base, come in una privatissima catena di montaggio.

Spazio Espositivo Angelo Montanari
Villa Verucchio, via Casale 276
4 aprile – 9 maggio 2009
ore 9-12 / 16-19

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