IN A BOX, smontato e rimontato, reinventato ogni volta, ha avuto diverse realizzazioni, in luoghi e per occasioni assai diverse. Questa che riporto è la nota che scrissi per accompagnare il programma di sala al tempo del suo primissimo prender forma.
Ringrazio Marco e Massimiliano che ancora una volta mi vollero con loro, mi attrassero dentro la loro scatola di meraviglie.
Forse un paio di millenni prima di Gutenberg, e certo molti secoli prima della battaglia di Samarcanda (751 d.C.), che avrebbe regalato all’Occidente barbaro e arretrato l’insperato dono di un prezioso oro bianco con cui pensionare la pergamena, in Cina già esistevano i caratteri mobili della stampa, e la carta.
La carta, e l’arte dei segni, sono stati a lungo un possesso esclusivo del Regno del Centro, nel suo solenne e sdegnoso isolamento. Ancora nel XX secolo un fine intellettuale come Roland Barthes poteva parlare di «Impero dei Segni» per quell'altra isola inaccessibile, quel Giappone arcaico e futuribile che i suoi occhi di semiologo europeo vedevano con tutta la distanza e la meraviglia di una inconciliabile, radicale alterità
Ma i segni non sono solo scrittura, e la carta non è solo un supporto di parole.
Segni sono le movenze della danza, la pittura gestuale ed effimera che un corpo traccia nell’aria, segni sono le ferite che il tempo, e l’ambiente, infliggono alla roccia scavata dall’acqua, all’albero squassato dal fulmine, all’uomo reso dolente dalla malattia. E la carta è un contenitore di segni e parole tanto quanto lo è di oggetti, di materia, negli scatoloni che contengono questo spazio scenico, nei cartoni da trasporto che sono piccoli mondi passibili di infinite concentrazioni, ammassi, impilamenti, o successivi inscatolamenti, così che non v’è forse mai un esterno che sia del tutto esterno, e non v’è esterno che a sua volta non circoscriva altro, non si spalanchi su altro.Segni sono le cuciture che fanno su di una veste un ricamo, o su un corpo ferito, chirurgizzato, lasciano traccia di un rapporto tra dentro e fuori; e non v’è poi bisogno di un bisturi per entrare nel corpo altrui, se continuamente i medicinali, come pillole o gocce, raggi o creme, iniezioni o manipolazioni, rimodellano soma e psiche, alla ricerca affannosa di salute o salvezza, di benessere o di pace dai propri demoni.
Scatole sono le case, scatole le stanze, scatole inscatolano gli alimenti o i prodotti nei supermarket, e sempre la carta del packaging strilla con colori vivaci messaggi seduttivi, prima di finire nel cestino, immolata alla necessaria fruizione dell’oggetto. Dunque la carta che contiene e trasporta è anche la carta inutile, il rifiuto, che qui si offre nella sua povertà acromatica, nelle sue lacerazioni e consunzioni, incisa e ricucita a costruire il nuovo derma/luogo artistico nel quale si agitano dinamiche di sensi accesi, dripping di movimento, e un’energia e una pulsazione che sono ritmo vitale, circolazione di messaggi, riciclaggio di merci, ardore metabolico.
Anche i segni sono ferite sul bianco della pagina intonsa, e anche il foglio di carta è contenitore di un teatro, o di un cinema, forse, di visioni ideali.
La materia di cui siamo fatti, di cui ogni cosa è fatta, canta nel corrompersi e nel rappezzarsi, e se al silenzio tutti siamo infine condotti, è danzando sonoramente che vi si inclina.
Ma i segni non sono solo scrittura, e la carta non è solo un supporto di parole.
Segni sono le movenze della danza, la pittura gestuale ed effimera che un corpo traccia nell’aria, segni sono le ferite che il tempo, e l’ambiente, infliggono alla roccia scavata dall’acqua, all’albero squassato dal fulmine, all’uomo reso dolente dalla malattia. E la carta è un contenitore di segni e parole tanto quanto lo è di oggetti, di materia, negli scatoloni che contengono questo spazio scenico, nei cartoni da trasporto che sono piccoli mondi passibili di infinite concentrazioni, ammassi, impilamenti, o successivi inscatolamenti, così che non v’è forse mai un esterno che sia del tutto esterno, e non v’è esterno che a sua volta non circoscriva altro, non si spalanchi su altro.Segni sono le cuciture che fanno su di una veste un ricamo, o su un corpo ferito, chirurgizzato, lasciano traccia di un rapporto tra dentro e fuori; e non v’è poi bisogno di un bisturi per entrare nel corpo altrui, se continuamente i medicinali, come pillole o gocce, raggi o creme, iniezioni o manipolazioni, rimodellano soma e psiche, alla ricerca affannosa di salute o salvezza, di benessere o di pace dai propri demoni.
Scatole sono le case, scatole le stanze, scatole inscatolano gli alimenti o i prodotti nei supermarket, e sempre la carta del packaging strilla con colori vivaci messaggi seduttivi, prima di finire nel cestino, immolata alla necessaria fruizione dell’oggetto. Dunque la carta che contiene e trasporta è anche la carta inutile, il rifiuto, che qui si offre nella sua povertà acromatica, nelle sue lacerazioni e consunzioni, incisa e ricucita a costruire il nuovo derma/luogo artistico nel quale si agitano dinamiche di sensi accesi, dripping di movimento, e un’energia e una pulsazione che sono ritmo vitale, circolazione di messaggi, riciclaggio di merci, ardore metabolico.
Anche i segni sono ferite sul bianco della pagina intonsa, e anche il foglio di carta è contenitore di un teatro, o di un cinema, forse, di visioni ideali.
La materia di cui siamo fatti, di cui ogni cosa è fatta, canta nel corrompersi e nel rappezzarsi, e se al silenzio tutti siamo infine condotti, è danzando sonoramente che vi si inclina.
6 commenti:
quanto mi piacerebbe vederli dal vero... a volte vivere lontano da voi mi pesa veramente...
mi piace moltissimo l'approccio del tuo testo!!! vedo che una cosa ci accomuna nella scrittura per l'arte: partire da "lontano" per mettere in luce il "senso" o uno dei "sensi" possibili dell'opera.... certo ho ancora molta molta stra da fare per starti dietro ;D, ma questo "scambio" di testi che abbiamo fatto ultimamente rende il cammino meno solitario :D e più diventente.
Infatti ho pensato di postarli, questi due pezzi, proprio per far partecipare un pochino chi non ha potuto esserci. Io che del non esserci mai ne so qualcosa...
Oltre al piacere dei parallelismi è bello anche capire come essi abbiano condotto al risultato dell'idea finale. Qui per caso, per tornare.
@ metrovampe
Benvenuto, è un grande piacere. Benvenuto per questa volta, e ancor di più se tornerai.
bellissimo pezzo, e magnifico finale. scrivi ogni giorno meglio luigi, mi piace il tuo sguardo sulle cose.
un abbraccio
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