Se un retore e moralista moderno, Pasolini, volle intitolare una sua raccolta di versi Poesia in forma di rosa, ebbene Davide Monda di quel complesso ente tanto omaggiato dai poeti, e tanto spesso fatto oggetto di riflessioni, di quell’elegante concerto di petali cui similmente si schiera la «milizia santa» dei beati in Paradiso XXXI, di quel fiore che perdendo il profumo sarebbe rimasto, nelle parole di Giulietta Capuleti, pur sempre se stesso, o che finì per reduplicarsi in tautologia e nonsense nel celebre a rose is a rose is a rose di Gertrude Stein, della rosa appunto, conserva, a nominare questo suo «severo canzoniere», solo la più severa delle manifestazioni, la spina. Ma la spina, a ben vedere, non è solo attributo puntuto e rovescio aspro, punitivo, della morbidezza della rosa, la quale blandisce a un tempo il tatto l’olfatto e la vista: è forse anche, e magari principalmente, il segno di un tormento che risale alla Seconda Lettera ai Corinzi di San Paolo 12,6, alla spina nella carne che doveva spegnere e prevenire la tentazione della superbia. Perfette, entrambe, la spina e la rosa, unite o disgiunte che siano, per trasfigurarsi in simbolo, per levitare in allegoria, per sfuggire in infinitudini analogiche. Aculeo, pungiglione, foglia rattrappita dal freddo o armata contro l’arsura, figlia di roveto o di sterpo, nobile e miserabile insieme, la spina rappresenta a un tempo il dolore e la sicurezza, la punizione e l’usbergo, il male inflitto e quello subìto, funge da memento che l’esistenza, in ogni sua forma, è conflitto, sopraffazione, pericolo, inquietudine. Rammemora, anche, che ogni essere vivente, adattandosi ai rigori del clima o alle insidie dei predatori, indica così facendo una dimensione altra, dove il conflitto sia pacificato. La spina è, forse, la condizione di base dell’imperfetto esistere: nostalgia, desiderio, tensione verso uno stato differente, dove della spina medesima ci si possa liberare.
Dinanzi a tali minime considerazioni iniziali, mosse a libro ancora chiuso dal suo nudo titolo, La spina dentro l’anima, non possiamo esimerci dall’osservare che non di sola spina vive questo frontespizio, e che la presenza, ivi, di una parola quasi bandita dal lessico moderno della lirica come «anima», bandita a un tempo perché sospetta di commerci con la dimensione mistica e con quella sentimentale, moltiplica invece le indicazioni di lettura verso le questioni sopra sfiorate.
Il lettore di poesia, posto che tale categoria esista ancora, e soprattutto il lettore paziente, dovrebbe porsi nei confronti di questo volume con un’attitudine insieme statica e peregrinante: lo percorrerà, più che soggiornarvi, in virtù del fatto che nessun testo dei sessantasei qui presenti si offre come approdo, nessuno conclude, nessuno, forse, è passibile di antologizzazione, giacché La spina dentro l’anima è già il frutto di una rigorosa cernita, e l’insieme conta molto più delle singole parti. Lo percorrerà, dicevamo, come un Peripato, insieme alle figure degli amici, attuali o perduti, che Davide Monda evoca e con i quali colloquia, e se avrà la pazienza di assecondarne il passo riflessivo, la scansione continuamente variata tra interrogazioni e asseverazioni, tra ricordi e prospettive, il senso compiuto dell’opera verrà a soggiornare in lui quasi insensibilmente. Nelle sei sezioni in cui si articola, che trascorrono da «Miserie, compassioni e mutamenti nell’ansietà dell’humana condicio» fino al «Tacito dialogo non interrotto con la gran Luce che orienta ogni passo», passando per «Crimini e decadenze nel presente», «Passioni che sostengono la vita», «Abissi e labirinti dell’amore» e «Presenze delicate d’amicizia», pare di vedere un percorso ascensionale eppure, se questa fosse una scala di Giacobbe, possiederebbe la curiosa umiltà di salire senza mai staccare i piedi da terra. Non è un’opera, il presente canzoniere, che si affidi a espedienti volgari, non millanta conversioni né illuminazioni, né intende produrle, bensì ricorre, sempre, all’antica serietà del dialogo, pretende ascolto mentre lo offre, non è un fluido saturo di parole solipsiste ed egocentriche, bensì una trama ariosa, dove possono espandersi i pensieri del lettore-interlocutore, comprese le sue obiezioni o divergenze.
Nell’antico sistema dei generi letterari, un libro come La spina dentro l’anima sarebbe forse di altrettanto ardua collocazione quanto lo è oggi – e lo si dice per sottolineare come l’inattualità della raccolta non sia un tratto contingente, relativo agli sviluppi moderni della lirica e del mercato, bensì una forma della sua identità – ma probabilmente verrebbe rubricato tra le satire: della satira classica possiede la vocazione analitica e riflessiva, la condanna spesso inflessibile tanto dei mali del contemporaneo quanto di quelli in interiore homine, lo studio delle pieghe dell’animo in una dimensione non indulgente né compiaciuta (appannaggio, queste ultime, più spesso dell’elegia). Tuttavia, la satira è sovente opera del melanconico, il suo ringhio atrabiliare verso l’esistente rivela più che celare una infelicità di fondo, la deformazione, l’osceno e il grottesco sono le sue risorse predilette. Invece La spina dentro l’anima critica il nostro tempo, non lo denigra. Osserva, non serra gli occhi. Nel rapporto educativo rinviene uno dei sensi profondi della vita, e questo ottimismo pedagogico è l’esatto contrario dello sguardo nichilista. Parla una lingua di nitore classico e di clarté settecentesca, pariniana nello spirito e non nel lessico, cambiando registro solo talvolta, scossa da folate romantiche o simboliste che non potremmo immaginare senza Hugo, Baudelaire o Rimbaud («ma io sono così, morso da un male / che lacera le musiche del sogno», Rabbia fredda e malata; «Dove abitano i petali del mondo? / Dov’è l’alta memoria che vi spetta, / colonne profumate d’assoluto?», Sopra una suite francese del buon Bach; «L’affetto chiama e incide nelle viscere / del cuore memoriali tormentosi, / serre violate da venti autunnali, / flutti che uccidono con un sospiro», Paesaggi incandescenti). Obbedisce con una adesione impeccabile e discreta alle regole della versificazione, senza manierismi di facciata, sì che i metri tradizionali vanno verificati, tanto sono poco appariscenti.
In tanta unità figura un solo intruso, evidentissimo anche perché è un anglismo: è la parola smog, che si legge in Lamenti per Bologna violentata. Lo smog costituisce una frattura, una ferita, nel corpo testuale. È l’unico stigma del moderno qui ammesso. Ma, come la spina da cui siamo partiti, non è difficile intenderlo in chiave di sovrasenso. Lo smog come dato naturale, paesaggistico, come allarme urbano sempre più grave, è un male che ci circonda e ci pervade, un pericolo che si respira, e non è mai tanto fuori di noi più di quanto non sia già dentro.
Per fortuna anche la poesia, talvolta, ci inquina.
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2 commenti:
bellissimo pezzo, complimenti luigi. (ti devo anche dire del libro, che mi sta entusiasmando).
Sergio, la colpa è tua, sai... mi hai dato tu l'idea, con la vieenbeige, di rimettere tutti insieme i miei scritti sparsi, e siccome sono pure lento, ogni tanto riciclo... la cosa del libro fingo di non averla sentita, che mi emoziono. Grazie, come sempre
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