mercoledì 18 marzo 2009

Un ricordo, un editore, e una storia edificante


Quando mio zio Alberto morì, quasi subito mi sentii di avanzare una richiesta che sorprese anche me.
In quella improvvisa mancanza di scrupoli lessi il sintomo, e il simbolo, di un desiderio che affondava come ogni iceberg scoperto solo alla sommità: chiesi alla zia se potevo avere, in suo ricordo, due libri, due libri della sua biblioteca che avevo amato in modo specialissimo, fin da quando ero bambino.
Lui teneva molto alla sua biblioteca, la accudiva e se ne stimava, e per tanti anni fu, quella, la più ampia raccolta di libri, settoriale per giunta, che avessi mai visto, una intera vasta parete coperta dal soffitto al pavimento di libri di storia, soprattutto di guerra. Un luogo che aveva l'aura del sacrario, della collezione, della faticosa costruzione di un sapere portato per mano e arricchito nell'arco di tutta una vita. Era la concrezione in pagine e dorsi, lettere nere e dorate, opuscoli e tascabili, di un qualcosa che potrei definire come il riversamento di un trauma adolescenziale (mio zio era del 1930, visse l'esperienza del fronte, della Linea Gotica, dei bombardamenti e dello sfollamento fra i tredici e i quattordici anni) negli stampi delle memorie altrui, combattenti o storici o vittime che fossero. Trauma e insieme fantasmagoria, come ben sanno coloro che a un conflitto scamparono a quell'età, quando tutto, perfino l'orrore degli orrori, riesce a divenire poi, nel ricordo, emozione che ruba il fiato.
La zia non solo accettò subito, ma disse che la cosa le faceva molto piacere, e mi invitò ad andarli a prendere il primo fine settimana che fossi tornato a Rimini. Era certa, e lo sono io del pari, che lui - ben consapevole della mia passione per quei due volumi - me li avrebbe donati volentieri, se avesse potuto.
Avevo scoperto quei libri non saprei dire a che età, ma so con certezza quando e perché: era tradizione, e lo rimase per tanto tempo, che le nostre due famiglie si riunissero nei giorni di Natale e Santo Stefano. Un anno a casa nostra, un anno a casa loro, e quando si stava da loro, io dovevo per forza andare in cerca, in quei lunghi pomeriggi in cui uscire era fuori discussione, e i grandi sonnecchiavano sui divani o giocavano a carte o guardavano la televisione, di qualcosa con cui giocare, per fronteggiare la noia. Esattamente come a casa mia, i miei giochi preferiti, inesauribili, erano i libri. E la biblioteca di mio zio, almeno fin dove io riuscivo ad arrivare, mi offriva un mucchio di giocattoli sconosciuti.
Allora ero piuttosto piccolo, amavo i libri illustrati, passione che mi porto dietro ancora oggi. Il mio imprinting venne da una edizione a fumetti dell'Iliade, che più invecchio più mi sembra contenere in epitome e in emblema la mia intera storia.
Da lui trovai due libri illustrati quasi altrettanto importanti, per il mio immaginario. Il primo si intitolava Waterloo. Il secondo Afrika Korps. Erano entrambi volumi ponderosi, con rilegatura rigida e sovraccoperta, l'uno sui toni del bordeaux e del carminio, come il cimiero di un Dragone, l'altro color sabbia del deserto. Uno conteneva meravigliosi dipinti a olio delle cariche dei cavalleggeri napoleonici e inglesi sul campo di battaglia, ma anche cartine dettagliate con gli spostamenti delle truppe, l'altro alternava foto d'epoca a vividi schizzi a china con immagini di autoblindo, Stukas, lanciatori di granate, cannoni antiaerei, tende da campo. Sarebbe piaciuta a Sebald, questa costellazione. Vertigini e Austerlitz, in fondo, muovono da lì.
Leggevo poco le parole, allora, ma sfogliavo e risfogliavo questi libri, ogni immagine me la studiavo nei dettagli per ore. Al sopraggiungere del Natale, la mia occupazione pomeridiana, anche quando fui grande ed ebbi licenza di uscire, era tornare a far visita a Waterloo e Afrika Korps, quasi fossero due persone anziane che vivevano lì e lì solo, e dalle quali io m'incantavo a farmi raccontare sempre le stesse storie.
Erano infine trascorsi molti anni da che non li avevo più avuti in mano, molti anni pieni di lutti malattie e invecchiamenti, molti Natali separati, e quando la zia mi invitò ad andare nello studio a prendere i libri ("Tanto lo sai meglio tu di tutti, dove sono", disse) per portarli via l'ultima volta, mi sentii come se m'avessero spalancato davanti, d'un tratto, le porte di un luogo cruciale della mia infanzia. Un luogo rimasto uguale in tutto e per tutto a come lo ricordavo, salvo che mio zio non c'era più, lì. E quel luogo che era stato tutto, mattoncino cartaceo per mattoncino cartaceo, costruito da lui, e suoi erano i disegni incorniciati, sue le fotografie, suoi i soprammobili, suo il gusto, era intatto, come se davvero il mondo fisico non si spostasse di un millimetro, quando noi veniamo meno.
Lui non c'era più, io non c'ero più, almeno l'io bambino che là dentro andava a sognare per evadere da pomeriggi troppo lunghi con la luce bassa sul tavolo e le nonne a riposare. Per un attimo mi sono sentito come un intruso, un saccheggiatore, qualcuno che si attacca morbosamente agli oggetti. Quei due libri simboleggiavano la passione di mio zio, che per contagio era presto stata anche la mia, ma ora quasi non li volevo toccare, mi sembrava giusto che rimanessero là, nella memoria, splendenti come la sua vitalità di marinaio che sapeva declamare Alcyone, come la mia ingenuità di bambino, come libri di meraviglie che da adulti non si possono sfogliare più, perché ritornano fatti di carta e parole.

E invece no, naturalmente. Li ho presi, li ho portati a casa, li ho attraversati con cautela, piano, come se potessero sentire dolore. Ma ecco, la sorpresa.
Del tutto imprevista. Agra, sulle prime.
E' vero che i libri fantastici da adulti non li puoi sfogliare più. Sono un'altra cosa, ora.
Perché ora leggo, e comprendo. E vedo scritto, su entrambi, un nome che conosco, che mi respinge, mi repelle.
Questi prodotti editoriali di gran pregio recano in fondo alla copertina la scritta Ciarrapico Editore.
Negli anni '70, Ciarrapico Editore pubblicava libri in difesa delle Waffen SS, degli uomini di Salò, della X Mas, perfino di Julius Evola. Volumi eleganti, con splendide illustrazioni, con una carta lucida e impaginazioni curate, opere che fan bella mostra di sé in una libreria, che possono incantare tanto un adulto quanto un ragazzo. Libri a combattere e decostruire i quali un uomo come Furio Jesi dedicava tutte le sue forze intellettuali. Chi fosse Giuseppe Ciarrapico allora non lo potevo certo sapere, e nemmeno l'avrei capito. Che al mondo esistessero persone malvage sì, anche a un bambino lo si può spiegare, ma che esistano uomini come Ciarrapico no, ci vuole molta più esperienza della vita e del suo squallore, per farsene un'idea.
Ma da questa apparente delusione ho estratto una morale edificante.
Ed è la stessa della prima novella del Decameron, quella di Ser Ciappelletto. Ser Ciappelletto è il più laido, disonesto, infame, vile, falso, avido e arrivista che mai sia vissuto. Sul letto di morte chiama il confessore, e confessa, con l'ultimo e il più sfacciato dei suoi inganni, soltanto virtù inarrivabili mentre finge di macerarsi nel rimorso di colpe microscopiche. Il confessore gli crede, lo assolve, sparge ai quattro venti la voce della sua santità. La folla accorre in pellegrinaggio, ne adora il luogo del trapasso, ne fa materia di racconto, leggenda, e spinta alla conversione. Ser Ciappelletto, genio del male, finisce per diventare, contro ogni previsione, autentico strumento del bene. Per caso, ma che importa?
I libri di Ciarrapico Editore erano revisionisti, forgiati con le peggiori intenzioni, confezionati con la stessa malizia delle confessioni bugiarde di Ser Ciappelletto. Volumi ingannevoli nati per essere suadenti, epici, mirabolanti, commoventi, volumi che mettevano in scena lo spettacolo sontuoso della guerra, mai il suo fetore. Libri di sinfonica menzogna, mai di scordata verità. Io da bambino li ho amati, eppure l'infame bugia del valore guerriero, dell'amor di patria, della nobiltà del sacrificio, della Nazione e della Bandiera, i fetidi feticci della Gioventù, della Virilità e del Sangue, non hanno minimamente attecchito su di me, anzi.
Ho continuato, come mio zio, ad interessarmi della guerra, a studiare le guerre, a cercare di capirle e immaginarle, ma non sarò mai vittima del loro fascino malato.
Boccaccio non lo dice, forse nemmeno lo pensa, però un lettore cristiano del Decameron dovrebbe confidare che Ser Ciappelletto, premiato dalla credula fiducia degli uomini, non per questo sfuggirà a una esemplare punizione oltremondana per le sue colpe.
Parimenti, se esiste una giustizia storica, anche solo in forma di prospettiva, Ciarrapico - condannato per aver violato quattro volte la legge che tutela il lavoro dei minori, condannato per la vicenda della Casina Valadrier, condannato per lo scandalo Safim-Italsanità, condannato per finanziamento illecito ai partiti, condannato per il crack del Banco Ambrosiano, oggi membro del Senato di questa Repubblica - riceverà il giudizio che merita, e io me lo auguro, ma di sicuro i fiori del male che egli ha contribuito a spandere, disinfettati un tempo dalla mia innocenza, ora dalla mia distanza, rimangono solo fiori, senza più alcun tossico.

E, come fiori, li depongo qui in memoria di mio zio.

1 commento:

sharazde ha detto...

grazie al cielo in te sono ben altri i semi che hanno attecchito, semi che regalano fiori preziosi, come questo!
Anche se indignata una volta di più dalla stupidità del belpaese, ti ringrazio comunque per la tua integrità, per le tue posizioni e per la tua scrittura!