sabato 13 novembre 2010

Rispecchiamento

Qualche sera fa, arrivato in stazione da Rimini, dovevo tornarmene a casa come sempre in autobus, e mi è successo di trovare la Circolare 33, quella che compie il giro dei viali di Bologna, parcheggiata alla fermata di piazza Medaglie d'Oro in un ben strano modo: era parzialmente in mezzo alla via, con tutte le porte spalancate e senza autista. Già non è normale vedere un mezzo così grande lasciato a ingombrare un luogo spaventosamente trafficato come quello, e nemmeno è normale trovare un autobus fermo senza conducente, perché se fosse pure il momento del cambio di guida, di solito l'uno non se ne va senza che il sostituto sia nemmeno in vista. Sembrava più un mezzo incidentato o in panne, tanto è vero che io sono salito un po' guardingo, e ho chiesto agli altri sparuti passeggeri se per caso si fosse rotto qualcosa, ma nessuno ne sapeva niente. Lo avevano trovato lì come me, come una balena spiaggiata, le porte aperte, per metà parallelo al marciapiede, per l'altra metà, dopo lo snodo, a invadere una carreggiata, quasi sotto il semaforo.
Insieme a me sono entrati una coppia di ragazzi spagnoli, evidentemente studenti Erasmus, ai quali altri amici iberici, tutti molto belli e allegri, giù dal bus, raccomandavano di scendere quando fossero arrivati a Porta San Felice. Sono rimasti per un po' lì ad aspettare che partissimo, chiacchierando e scherzando da terra con i due a bordo. Non capivo le loro parole, ma capivo che parlavano di case di amici, di locali, di passeggiate notturne, di programmi, di lezioni all'indomani, di tutta la bella vita bolognese per uno studente fuori sede in una città piena di giovani e di stranieri. Poi, visto che non succedeva niente, hanno salutato e se ne sono andati.
Frattanto che aspettavamo soluzione alla stasi inspiegata del mezzo, e altri minuti passavano, ho preso a vergognarmi, al pensiero della impeccabile Spagna che ricordavo, di fronte a questo così plateale disservizio in un sistema di trasporto peraltro buono come quello di Bologna. Strani pensieri in libertà, residui di pseudo orgoglio nazionale a rovescio anche in una persona che solitamente non è molto incline a questo genere di fantasticherie.
Dopo tanto, troppo tempo che quel dinosauro strozzava la circolazione già di suo ingolfatissima, è arrivato un autista; salito dal fondo, ha attraversato l'intero bus come se tutto fosse normale, senza dire una parola di spiegazione a nessuno di noi presenti, e si è seduto con serafica calma al suo posto. Mentre armeggiava per mettersi comodo, il ragazzo spagnolo è andato gentilemente a chiedergli se poteva cambiare due euro per fare il biglietto a bordo, e quello, figuriamoci, lo ha trattato molto sgarbatamente, scuotendo la testa. Intanto, il mezzo si era avviato lungo i viali, nella notte. Con aria un po' delusa, lui se n'è tornato a sedere.
Dopo un paio di fermate, è stata la ragazza della coppia ad avvicinarmisi e mi ha chiesto la stessa cosa. Io per caso le avevo, due monete da un euro, così i giovani studenti spagnoli, che quasi erano a destinazione, e che pure erano stati maltrattati dall'autista arrivato con dieci minuti di ritardo, invece che infischiarsene e finire il breve viaggio gratis, si sono fatti i loro bravi biglietti.
Quando la porta a vetri del bus si è aperta per farli smontare, lei si è girata verso di me e mi ha fatto un sorriso, un gesto piccolo con la mano di saluto, come ringraziamento.
Poi sono scesi, la porta si è richiusa. E io mi sono visto nel vetro, seduto dentro il bus, gonfio in viso, segnato sotto gli occhi.
E ho capito di colpo perché parlo sempre di vecchiaia, quando mi sorgono quegli irrefrenabili conati di autocommiserazione. Perché parlo sempre di vecchiaia quando vorrei invece parlare di solitudine.
Perché la vecchiaia è solitudine. L'orrore del corpo che diventa protagonista, al contrario di come, se hai avuto fortuna, è stato quand'eri giovane. Quand'eri giovane il corpo si faceva protagonista in un modo che ti apriva verso l'esterno, che creava contatti con gli altri, che permetteva di interagire in mille modi, fosse nel ballo, nello sport, nel mangiare bere fumare in grandi tavolate, nel correre, cantare, nuotare, urlare, rotolarsi con il cane, andare a cavallo; nel fare l'amore, soprattutto. Quel protagonismo si rovescia, si introflette. Il corpo che ti permetteva di fare tutte quelle cose, improvvisamente te le nega tutte, e subentrano la fatica l'acciacco la stanchezza la cattiva digestione il.... soprattutto ti nega ciò a cui quelle azioni ti conducevano: la relazione con altri esseri umani. La vecchiaia è la solitudine del centrarsi su se stessi, sui propri malanni, sulle proprie sfortune, sulle proprie ossessioni e frustrazioni, sulle piccolezze che diventano drammi, sui minimi fastidi che diventano pene insopportabili, sulle pulviscolari contrarietà che diventano crucci enormi e pensieri fissi, sui rovesci da niente che assurgono a grandi sconfitte.
Mi sono rispecchiato, in quella porta a vetri chiusa di fronte alla notte e al traffico, chiusa alle spalle dei due allegri e gentili ragazzi spagnoli che se ne andavano verso qualcosa, qualunque cosa fosse, insieme, e ho capito perché dico sempre di essere vecchio, a 38 anni.

mercoledì 10 novembre 2010

Uno straordinario racconto di vita, di musica, d'amicizia e d'amore.




(dal sito ufficiale di Bruce Springsteen, l'orazione funebre per Danny Federici. Traduzione, libera, del sottoscritto. Chi può si legga l'originale.)


Buon viaggio, buona fortuna, salve e addio, Danny
FAREWELL TO DANNY


Lasciate che inizi raccontandovi una storia, delle storie.
Dobbiamo tornare indietro ai giorni in cui avvenivano i prodigi, i giorni della Frontiera, quando Mad Dog Lopez con il suo caratteraccio incuteva un sacro timore nella band, nei proprietari dei piccoli club, nella gente perbene e in tutte le donne, i bambini, e i cuccioli in giro.
Tornare indietro a giorni in cui ancora potevi spender in un colpo solo la tua vita, giocartela sul cofano di una macchina parcheggiata, da qualche parte a New York City.
Indietro, quando da poco un giovane suonatore d’accordion rosso di capelli aveva vinto una medaglia d’oro al concorso di Ted Mack, e lui e sua madre s'erano fatti un viaggio premio fino in Svizzera, per andare a vedere come le facevano, quelle meravigliose fisarmoniche.
Indietro, ancora indietro, prima che i vagabondi da spiaggia finissero sulla copertina di Time.
Sto parlando di giorni lontani, quando la E Street Band era una specie di organizzazione comunista! Il mio pallido, silenzioso, timido Dan Federici è stato lo specialista nel creare alcune delle situazioni più pelose di tutta la nostra quarantennale carriera. E non era un ruolo facile da conquistarsi, quello. Aveva “Mad Dog” Lopez con cui misurarsi… Ma Danny, semplicemente, gli diede la paga.
Forse tutto cominciò dal brutto guaio con la polizia a Middletown, New Jersey. Capitò durante uno show che dovevamo fare per tirar su un po’ di soldi di cauzione per “Mad Dog” Lopez. Lui al tempo era finito in cella a Richmond, Virginia, dopo un litigio violento con dei poliziotti, e a peggiorare la situazione ci avevamo pensato noi andando troppo lunghi a suonare. Danny presumibilmente rovesciò la catasta dei nostri enormi Marshall su alcuni degli ufficiali di Middletown che avevano aggredito il palco per farci smettere. Eh certo, avevamo infranto la legge… suonando oltre l’ora consentita.
Quando mi affacciai a guardare, c’erano parecchi poliziotti che strisciavano fuori da sotto gli amplificatori ribaltati e si affannavano in giro in cerca di cure mediche. Un altro grazioso ufficiale si mise dritto di fronte a me sul palco brandendo il manganello, spintonandomi e riempiendomi di insulti. Continuai a cercare con gli occhi dove fosse finito Danny, e infine lo vidi, con un nerboruto rappresentante della legge che lo strattonava per un braccio. Dall'altra parte Flo, la sua prima moglie, lo strattonava del pari, cercando forse, in qualche modo, di aiutarlo a sottrarsi all'arresto.
Un ragazzo saltò su dalla sala fin sul palco, e per un attimo distrasse l’attenzione dell’energumeno in divisa con un’antologia degli insulti del giorno. Come poi accadde sempre anche in seguito, “il Fantasma” Dan Federici si tuffò in mezzo alla folla, e scomparve.
Con un mandato d’arresto a suo nome, e dopo un mese intero di latitanza, non era ancora stato consegnato alla giustizia. Noi lo avevamo nascosto nei posti più diversi, ma a quel punto si presentava un problema serio. Si avvicinava uno show, fissato al Monmouth College. Avevamo bisogno di soldi, e quel concerto andava fatto. Cercammo a lungo un sostituto, facemmo prove e provini, però non funzionava. Alla fine Danny, lasciandoci tutti sorpresi e ammirati, si alzò e disse che si sarebbe giocato la sua libertà, avrebbe corso il rischio e suonato.
Arriva la sera dello show. C’erano duemila nostri fans urlanti a stipare la palestra del Monmouth College. Ci eravamo organizzati per far sì che Danny non salisse sul palco fino al momento esatto in cui avremmo iniziato a suonare. L’idea era che la polizia lì presente per mettergli le mani addosso non si sarebbe azzardata a farlo davanti a tutti, durante il concerto, con il rischio di dare il via a un altro tafferuglio.
Lasciate che vi descriva la scena, provate a immaginarvela. Danny se ne stava nascosto, semisdraiato nel sedile posteriore di un’auto, fuori nel parcheggio. Quando mancano cinque minuti alle otto, l’ora per noi di attaccare a suonare, vado a chiamarlo.
Gli tamburello sul finestrino: “Danny, forza, è ora”.
E sento che mi dice “Non vengo”.
Io gli faccio: “Che cosa vorrebbe dire “non vengo”?”
“Guarda che ci stanno i poliziotti, sul tetto della palestra”, mi spiega Danny. “Li ho visti. Scenderanno giù e mi arresteranno appena metto fuori un piede da questa macchina”.
Apro la portiera. Annuso, e mi rendo conto immediatamente che Danny s'era fumato qualcosa, e mi era entrato in paranoia. “Non ci sono poliziotti, sul tetto, Dan”, gli dico.
E lui, ancora: “Sì che ci sono. Li ho visti con i miei occhi. Te lo ripeto, non ci vengo dentro a suonare”.
Insomma, fui costretto a usare una procedura cui poi dovetti ricorrere spesso, nei quarant’anni seguenti, per venire a patti con le preoccupazioni dei miei vecchi amici. Lo minacciai... e insieme lo blandii. Alla fine, se ne venne. Scivolammo attraverso tutto il parcheggio e dentro la palestra per andare a tenere un concerto che uscì fuori frenetico, entusiasta. Tutto il tempo ce la ridemmo come pazzi, come ladri che l’avevano fatta franca, come running backers che hanno fatto una schivata da manuale alla polizia locale intenta a placcarci.
Quando arrivammo alla fine dello show, durante l’ultimo pezzo, chiamai in piedi e fin sul palco la gente, così Danny sparì tra il pubblico e uscì sfacciatamente, in tutta sicurezza, dall’entrata principale. Ancora una volta, Dan il “Fantasma” aveva fatto la sua dipartita speciale. (E, sapete? Mi arrivano ancora le cartoline d’auguri dal vecchio capo della polizia di Middletown. La loro storia e la nostra sono rimaste intrecciate, per sempre). Ma questo, amici miei, come si dice, era solo l’inizio.
Ci fu quella volta in cui Danny lasciò la band, durante un periodaccio in cui suonavamo al Max’s Kansas City. Mi spiegò che se ne andava per mettersi a riparare televisori. Io che potevo fare? Gli chiesi di pensarci su, e di tornare da noi, più avanti.
O ci fu quella volta che Danny, nella macchina a noleggio della band, speronò parecchie altre auto parcheggiate dopo una notte brava, e sfondò il parabrezza con la testa nell’impatto, ma si salvò dal farsi veramente male grazie a un fottuto capello da cowboy rigido che aveva comprato in Texas, al tempo della nostra ultima scorribanda giù nel West.
E un’altra volta ancora lasciò una grande pianta di marijuana in bella vista sul sedile davanti della sua auto, parcheggiata in una zona di rimozione forzata. La macchina, ovviamente, fu subito sequestrata. E lui mi dice: “Bruce, ora vado là e ai poliziotti racconto che era rubata”. Gli feci presente che non mi sembrava una grande idea.
Ci andò lo stesso, e finì in gattabuia dritto filato.
Danny fu l’unico membro della E Street Band che sia stato fisicamente buttato fuori dallo Stone Pony. Se penso a quanti soldi gli facemmo fare, a quel posto, non era un trattamento così facile da ottenere.
Ma d’altronde fu persino in grado di sopportare una strapazzata, a mo' di ammonimento - addirittura di sopravviverci! - da parte di un furioso “Big Man” Clarence Clemons, che non so come riusciva ad esser compassato anche quand'era furioso. Successe al tempo in cui abitavano insieme. Danny era riuscito a portare “Big Man” fuori dalla grazie di Dio.
Me lo ricordo una volta intento ad aiutarmi a tirar fuori il piede dall’altoparlante del suo stereo. È stato l’unico membro della band, in assoluto, capace di farmi arrabbiare così tanto.
Attraverso tutto questo e tanto altro, Danny suonava per me il suo magnifico, emozionante organo Hammond B3, e il nostro amore cresceva. E continuava a crescere. La vita è divertente e strana così. Era un ragazzino, e insieme un fenomeno; alla fin fine, era ben più tollerante lui delle mie debolezze di quanto io fossi con le sue.
Quando non combinava guai o disastri, era un uomo di buon cuore, dolce, talentuoso, modesto, senza pretese, che possedeva, per dirla in breve, l’abilità naturale di uscirsene senza un graffio quando le cose andavano assolutamente a sfracello.
Ma, a parte tutto, possedeva una montagna di talento, di talenti. Gli erano stati dati il cuore e l’anima di un ingegnere. Aveva imparato a pilotare aeroplani. Era sempre aggiornato sulle tecnologie più recenti, e te le avrebbe spiegate, se tu avessi voluto, con enorme pazienza, fin nei minimi dettagli. Lo trovavi sempre che stava a riparare qualcosa: la sua macchina, lo stereo, il suo hammond B3. Quando Patti si unì alla band, lui fui il più benevolo, il più attento, il più gentile amico nei confronti della prima donna che fosse stata ammessa nel nostro club tutto al maschile.
Amava tanto i suoi figli: si vantava sempre di Jason, Harley e Madison. E amava tanto sua moglie Maya, per tutto quel nuovo mondo di cose meravigliose che aveva portato nella sua vita.
E poi, c’era la sua arte. Era il musicista più intuitivo che abbia mai conosciuto. Il suo stile era scivoloso e fluido, spalmato tra gli spazi che gli altri membri della E Street Band lasciavano vuoti. Non era un musicista che si imponeva, era uno che si univa, completava. Un vero accompagnatore. Lui spontaneamente forniva il collante che teneva insieme il sound di tutta la band. Nel fare ciò, si era creato uno stile tutto suo. Quando ascolti Dan Federici, non senti una coltre di suono, senti un riff, un graffio, fatto di pura energia, di ritmo, che sorvola sopra tutti gli altri strumenti per pochi istanti e poi torna a scomparire dentro la canzone. Il “Fantasma” Dan Federici. Ora lo senti. Ora non lo senti più.
Giù dal palco o fuori dai teatri, Danny non era in grado di ripeterti un verso né una progressione di accordi di nessuna mia canzone. Invece, sul palco, le sue orecchie si spalancavano. Ascoltava, sentiva intimamente, suonava, trovando sempre lo spazio perfetto, la posizione ideale per un accordo o per una spruzzata di note. Quello stile creò un incredibile senso di spontaneità nel nostro far musica tutti insieme.
In studio, durante le registrazioni, se volevo arrivare al fondo del lavoro su una canzone, dovevo solo dare il via a Danny e non dirgli cosa o come suonare. Solo lasciarlo libero. Lui avrebbe portato con sé nel pezzo i suoni del carnevale, i divertimenti, le passeggiate, la spiaggia… tutta la mappa della nostra giovinezza, e il cuore e l’anima del luogo dove la E Street Band era nata.

Poi crescemmo. Molto molto lentamente. Passammo, rimanendo in piedi, attraverso un mucchio di prove, casini e tribolazioni. La risposta di Danny a ogni cosa, fosse essa un errore capitato suonando dal vivo, o fossero tempi duri, o qualche evento catastrofico, di solito era una scrollata di spalle con un sorriso. Come a dire: “Io sono soltanto un uomo in un mare in tempesta, ma sto ancora a galla. Siamo ancora qui”.
Ho visto Danny combattere – e sconfiggere – alcune pesanti dipendenze. L’ho visto sforzarsi di rimettere insieme i pezzi della sua vita, e negli ultimi dieci anni, da quando la band si è riunita, sembrava che traesse linfa e gioia a sedersi dietro la tastiera di quel grande B3, pieno com’era di vitalità e, sì, di una nuova maturità, della passione per il suo lavoro, la sua famiglia e la sua casa trovata in questa gran fratellanza e sorellanza nel nostro gruppo.
Negli ultimi tempi l’ho visto lottare con il cancro senza piangersi addosso, con un immenso coraggio. Quando gli chiedevo come andavano le cose, come stesse, mi rispondeva semplicemente “Che vuoi farci? Io guardo avanti, a domani”. Danny, il fatalista ottimista. Non ha mai mollato, fino alla fine.
Qualche settimana fa ci siamo trovati sul palco insieme a Indianapolis per quello che sarebbe stato il suo ultimo show. Prima che salissimo, gli chiesi che cosa gli avrebbe fatto piacere suonare, e lui mi disse “Sandy”. Voleva mettersi a tracolla il suo accordion e riportare in vita le passeggiate a mare della nostra giovinezza, quando camminavamo insieme tutta la notte per quei pontili di legno, con a disposizione tutto il tempo del mondo.
E chi se ne frega se siamo andati a sbattere contro tre macchine parcheggiate, guarda che notte magnifica! Chi se importa se siamo ricercati da tutto il dipartimento di polizia di Middletown, andiamoci a fare una nuotata! Lui quella sera volle suonare ancora una volta, una volta ancora, una canzone che parla della fine di qualcosa di meraviglioso, e dell’inizio di qualcosa che non sai cos’è.
Torniamo, venite con me, ai giorni dei miracoli. Pete Townshend una volta ha detto: “una rock and roll band è una cosa pazzesca. Incontri dei tizi quando sei appena un ragazzo e senza neanche un pensiero, poi ti ci leghi, e ci passi tutta la vita, non importa chi sono o quante cose folli combinino”.
Se noi non avessimo suonato insieme nella E Street Band, probabilmente a questo punto non ci conosceremmo nemmeno più. Certo non saremmo in questa stanza tutti insieme. Ma invece ci siamo… Suoniamo ancora insieme. E ogni sera alle otto in punto, quando montiamo sul palco, amici miei, quel palco è il luogo dove prendon vita i miracoli. Vecchi e nuovi miracoli. E le persone che sono insieme a te, in presenza di un miracolo, anche di uno solo, sono persone che non potrai mai dimenticare. La vita non vi separa. Il tempo non vi separa. Nemmeno le inimicizie. La morte, neppure. Le persone che hanno dato vita a dei miracoli per te, come Danny ha fatto per me ogni sera, sono persone che ti onorano con la loro vicinanza.
Certo, siamo tutti diventati grandi, e sappiamo che “it's only rock and roll”... ma poi no, non è così. Dopo una vita intera passata a guardar un uomo che crea i suoi miracoli per te, notte dopo notte, questa roba assomiglia un sacco solo all’amore.
Così, oggi, mentre fa un’altra delle sue misteriose uscite di scena, noi diciamo ciao, buon viaggio, buona fortuna, salve e addio a Danny “il Fantasma” Federici. Padre, marito, mio fratello, mio amico, mio mistero, mia spina, mia rosa, mio organista, mio uomo dei miracoli e membro a vita nell’ultima ribalta della house rockin’, pants droppin’, earth shockin’, hard rockin’, booty shakin’, love makin’, heart breakin’, soul cryin’... and, yes, death defyin’ legendary E Street Band.



Bruce Springsteen

Red Bank, New Jersey, 21st April 2008