lunedì 13 giugno 2011

Sa cosa stavo pensando? Reload (da uno spunto di Malvino)

Dopo aver riso tante volte di gusto a quella famosa, famosissima scena di Caro diario, quella che proverbialmente ormai è riassunta nello slogan "mi troverò sempre d'accordo con una minoranza di persone", mi sono gradualmente reso conto - non oggi, ma oggi più che mai -, che se Moretti, o uno come lui, fosse venuto a dirla a me, quella battuta spocchiosa, avrei risposto anche io "Auguri!", ripartendo con un rombo.
E anzi, dirò di più: se mi fossi trovato vicino a lui, lui pensoso, con il suo casco bianco e gli occhialetti, fermo in vespa al semaforo, sarei sceso io per primo dall'auto, per apostrofarlo: "Sa cosa stavo pensando? Che le faccio tanti auguri, a lei e alla sua minoranza". E poi sarei ripartito, come dicevo, con un rombo, anche senza Mercedes.

(ispirato da Malvino, con cui sono quasi sempre d'accordo, e oggi invece no)

venerdì 15 aprile 2011

Solo perché italiano

Non voglio dar l'idea di cavalcare l'emozione. Non conoscevo il lavoro di Arrigoni, e mi dispiace, ma mi fa anche riflettere. Significa, certo, che io mi informo poco, colpa esclusivamente personale. E tuttavia significa anche altro. Questa intervista, soprattutto per i filmati che contiene, va vista. Andava vista prima, va vista a prescindere dalla tragedia di un singolo.

Si trova qui:
http://www.youtube.com/watch?v=SblB2O7AfP4&feature=related

Sapete cosa mi fa rabbia e schifo? Che molti giornali oggi aprono con la notizia della sua morte solo per un motivo. Perché era italiano. Leggo in giro - e non mi stupisce affatto - che il suo lavoro di cronista del massacro israeliano a Gaza era stato pesantemente denigrato e osteggiato. Oggi tutti parlano di lui. Ripeto, solo perché era italiano. Come Quattrocchi. Eh no, così non mi va bene.

domenica 27 febbraio 2011

La faccia giusta


Questa è la faccia che la scuola pubblica tutta, oggi, dovrebbe avere.
Bellissima. Sono fiero di te, ragazza.
(La foto viene dalla homepage del 28/02/2011 de "L'Unità" on line; non ho trovato i crediti espliciti)

giovedì 24 febbraio 2011

Modesta proposta a V.S.

Modesta proposta a Vittorio Sgarbi: perché non ci torna adesso in Libia, come fece tanti anni fa violando l'embargo internazionale, per testimoniare (di nuovo) la sua amicizia con Gheddafi? Dov'è, adesso, l'urlatore e il picchiatore verbale che si spaccia per uomo di cultura?
Dov'è, adesso, quell'egocentrico frustrato che - giustamente non ammesso nel mondo universitario perché era un cialtrone vanesio - fece del suo risentimento la clava e il grimaldello con cui scalò l'establishment culturale italiano fino a diventare Ministro?
Dov'è l'omiciattolo che divenne famoso non per i suoi libri (pura immondizia), ma perché augurò in tv a un grande, autentico critico d'arte come Federico Zeri di morire, evidentemente non avendo altri argomenti che quello?
Dov'è, oggi, Vostra Signoria Vittorio Sgarbi? Perché non ci viene ancora a gridare "Capra!", o "Studia!" come un disco rotto, lui che da vent'anni si atteggia a unico acculturato in un paese di ignoranti? In quale salotto aristocratico o in quale alcova si trastulla mentre i libici vengono massacrati, lui che ebbe dal rais la sua bella stola verde, lui che ha costruito il suo successo - complice prima l'altro orribile salotto tv di Maurizio Costanzo, da cui sono passati quasi tutti quelli che hanno ridotto l'Italia com'è oggi, noti e ignoti, creando la tv del dolore e quella dell'insulto, quella dei comici e quella dei barzellettieri, e poi il Berlusca - sull'inganno e sulla peggiore spocchia libresca?
Sgarbi, come Ferrara, ha usato contro gli italiani l'arma peggiore, che non è (si badi bene) solo l'arroganza e la prepotenza, bensì il loro incrocio sotto l'ombrello protettivo dell'"intellettualità", speculando cinicamente sulla scarsa cultura (e sulla coda di paglia, forse, sul latente senso di colpa) di gran parte del paese. Così che, anche quando li detestano, i più riconoscono a Sgarbi che "è tanto colto", e a Ferrara che "è tanto intelligente", senza avvedersi che si tratta di aggravanti, non d'altro. E nessuno mai, nemmeno quando blatera e inveisce, si azzarda a dargli vergogna, al Professore-Ministro-Sindaco, perché in fondo in fondo lui è quello tanto colto. Caratteraccio, sì sì, ma uh quanto ne sa di storia dell'arte!...
Mi pare ancora la vecchia, vecchissima, insuperata malattia dell'italia cortigiana contadina e analfabeta. Il personaggio del professore è ormai delegittimato dappertutto, sia esso di scuola o d'università, salvo che in televisione. Figuri impresentabili come Sgarbi hanno capito che il luogo dove si poteva ancora spendere quella moneta ormai fuori corso dappertutto, la cultura, era il piccolo schermo, e ne bastava pure poca, pochissima. Rincalzata con ampie dosi di protagonismo e beceraggine, maleducazione e aggressività, perché sennò è noiosa, la cultura.
Allora, gentile Vittorio Sgarbi, ricapitoliamo: lei che da sempre combatte battaglie sbagliate
a) contro un gigante come Federico Zeri, rispetto al quale lei è meno che un microbo, e contro ogni autentico, serio intellettuale;
b) contro l'Università non perché è davvero corrotta e baronale, ma perché non l'ha voluta, facendo forse l'unica azione irreprensibile della sua storia recente;
c) contro la miglior arte contemporanea, tacciata qualunquisticamente di cialtroneria, a favore di inguardabili, stucchevoli, anacronistici, reazionari pittori neo-figurativi
d) contro i giudici e la magistratura, per ovvii motivi;
e) contro l'embargo internazionale alla Libia, faro di democrazia;
f) perfino contro le energie rinnovabili, e - ancora una volta - unendo in un gran calderone indistinto il motivo giusto, ossia limitare l'ingerenza delle mafie in quel business, a quello sbagliato, cioè "difendere" il paesaggio italiano, come se il cemento delle mafie, i rifiuti delle mafie, gli inceneritori delle mafie, le autostrade e i viadotti delle mafie, gli scarichi abusivi delle mafie (e dei suoi amici raffinati imprenditori) non massacrassero assai di più il nostro territorio;

perché non prende un suo aereo privato, oggi stesso, e non vola di nuovo a Tripoli, per difendere Gheddafi da quegli ignorantoni dei suoi sudditi, che non hanno studiato, non sono fini miliardari collezionisti, non tutelano la bellezza del paesaggio? Difenderlo, ovviamente, a colpi di "Capra!" e "Studia!". Sono solo due parole, e qualora Lei non le conoscesse, non dubito che troverà un solerte traduttore in grado di insegnargliele. Lei che è tanto colto, non avrà certo problemi a imparare.

giovedì 27 gennaio 2011

L'erba e l'ufficio. (Per la Giornata della Memoria)



Bologna, 27 gennaio 2005


L’ufficio sembra abbastanza piccolo, spartano, con una scrivania in legno curiosamente disposta in obliquo, morigeratamente ingombra di carte, documenti e pratiche, penne e agende, un calendarietto ritto con fare da palizzata contro i seccatori. Nell’angolo, tra il termosifone, la parete e la sedia, si vede un tavolino con sopra due telefoni fianco a fianco. Uno banale e grigio, l’altro rosso, ma d’un rosso niente affatto pop, anzi a modo suo ha un aspetto tetro, come quelli che negli anni Sessanta ci immaginavamo essere nella Sala Ovale e al Cremlino, quelli la cui cornetta non s’alza mai, e se si alza è solo per trasmettere nefasti impulsi di morte. Non è molto illuminato, qui dentro, anche perché fuori la luce è color lapide. Per giunta, la tendina bianca, fittamente traforata ma dozzinale, ne ferma con triste educazione da domestica in divisa più di metà. Dell’esterno si vede poco, si scorge del verde slavato, e qualche costruzione, sembrano torri.
Vorrei dirvi che sono entrato adesso in questo ufficio, che sto descrivendovi ciò che ho davanti agli occhi, o tutt’al più che l’ho fatto un tempo, e la bava nera che ne cola ora sul foglio del computer è quanto ricordo. Vorrei dirvi che il mio nome è Alan Jacobs, che sono un fotografo, che mi trovo in questo posto spaventoso oltre ogni possibile immaginazione per l’ennesima volta, e che ho un appuntamento con l’uomo che lavora qui dentro. Ma non ne ho voglia, non ha senso finger niente, oggi come una volta, dinanzi a tutto questo.
Alan Jacobs è stato qui, lui sì. Lui ha scattato la foto che vedo, tra il 1979 e il 1981. Lui di sicuro ha parlato con il direttore, l’uomo la cui presenza dietro la scrivania si intuisce forte dai segni del suo lavoro giornaliero, lui certamente ha sentito la sua voce. Kazimierz Smolen.
Io non possiedo immaginazione sufficiente per dare la parola a questi due, anzi mi sembra vergognoso esercitare la fantasia qua dentro, sforzarmi di cercare la parola ad effetto, la battuta sorprendente o commovente, la sintesi che colpisce al cuore, o anche solo il tono giusto, la credibilità nel dialogo, il timbro realistico.
Che ne so di come parla un uomo che sceglie di fare questo? Che ne so di un uomo come Smolen?
E che ne so di cosa Alan Jacobs potrebbe avergli domandato? Non so nemmeno perché lui continuava a tornare, se era per i suoi genitori, o per altri suoi parenti, o per se stesso, magari era stato qui da bambino, oppure era solo un uomo sconvolto da quanto vi aveva visto, un turista dolente fra tanti, gli occhi piccoli e strizzati come quando c’è troppa luce, perché qui ogni cosa che vedi ferisce, o forse era solo un fotografo con la passione per la storia, uno deciso a testimoniare con impressioni di pellicola quanto non si può credere, quanto ci si rifiuta di credere, e qualcuno poi cerca sempre di approfittarsene, dell’incredulità.
Non mi interessa inventare un dialoghetto morale, di questo sono sicuro.
Ma la storia c’è, e va scritta. Perdonate se violento così le scenografie del bon ton narrativo, se butto all’aria le macchine di scena, se tradisco i costumi antichi finiti di cucire ieri, le spade di legno, le corone di similoro, non è svogliatezza la mia, né mancanza di rispetto per il lettore. E’, piuttosto, il mio modo, forse maldestro, di essere listato a lutto. Inutile fare sceneggiate, stavolta.

Alan Jacobs è qui, ad Auschwitz-Birkenau, per fare delle foto. Molti anni dopo, nel 1996, le avrebbe riversate su Internet, quand’ancora i siti di privati non erano legione, una piccola homepage con poche immagini e qualche didascalia, una grafica elementare più che minimale, degli improbabili font arancio su sfondo nero, tutta roba necessaria a farsi travasare anche dai modem di allora, anfananti piccole tartarughette rosa, lente e antidiluviane trituratici di bytes. E qui, molti anni dopo ancora, nel 2003, tuttavia galleggianti nell’oceano senza tempo della rete, dove a segnare il trascorrere rapidissimo della nostra storia digitale resta solo il colpo d’occhio, l’arricciarsi di naso dinanzi all’estetica arcaizzante, o l’infuriarsi impotente alla prova dei link scaduti, vicoli divenuti ciechi, io le avrei scovate.
Tra gli scatti di Alan Jacobs, due furono quelli che presero possesso di me, gli ultimi due della lista.
Avevo riletto da poco Primo Levi, e forse la ricerca su Internet di un pellegrinaggio virtuale dentro i gironi di Auschwitz nacque proprio per quella ragione, non saprei dirlo con certezza. So però che la foto denominata “Quarantine”, di suo, non aveva gran che per attrarre l’attenzione mia, o di chiunque.


E’ una foto molto buia, scattata da dentro una baracca. L’unica pozza di luce è la porta semiaperta, che dà sull’esterno, con alberi spogli in lontananza, e uno dei famosi pilastri di cemento che sorreggevano il filo spinato elettrico. Ma il pilastro non è inquadrato come un’icona, è solo una stenta rovina in mezzo all’erba alta. Se non sapessi che è Auschwitz, potrei scambiarlo per un lampione malconcio e rugginoso. Dello spazio interno non si legge pressoché nulla, se non un primo blocco di letti a castello in legno sulla sinistra. I raggi del sole non si avventurano quasi nell’edificio, l’oscurità è densa, bituminosa. Anche i letti a castello sono orribilmente noti, eppure esistono innumerevoli immagini più significative o anche solo più nitide di questa, tanto nei film quanto nei reportages fotografici. La didascalia, inizialmente asciutta e descrittiva come le precedenti, informa il visitatore che si trova nel “Quarantine Block: Birkenau, second section, camp A”.
Ma poi, Alan Jacobs guarda la sua foto, una povera cosa, priva sia di seduzioni compositive sia di quozienti informativi, e aggiunge la frase che mi fa capire perché, con a disposizione poco spazio virtuale e connessioni precarissime e flussi informatici che al massimo si scambiavano manciate di bytes, nel 1996 ha deciso di non cestinarla, anzi di inserirla in rete.
La didascalia dice

A survivor looked at this photo and gasped in surprise: «Grass? There was never any... there. We would have eaten it».


La foto, in effetti, contiene quasi un solo colore, il verde dell’erba. Circondato da un mare di buio, c’è al centro della foto quest’occhio rettangolare che guarda verso il fuori, e il cielo è bianco, gelido, ma almeno l’erba ha una tinta brillante, che fa supporre una pioggia recente, o un velo di rugiada. Niente di poetico, s’intende, è un paesaggio intirizzito, ma in effetti una qualche forma di vita quel verde la testimonia. Lo stupore del sopravvissuto richiama in me un’analoga sorpresa: ho appena lasciato le pagine di Se questo è un uomo, e lì la fame il freddo il fango sono un tutt’uno ossessionante, perfino più di altri aspetti che a rigor di logica dovrebbero subito muovere alle lacrime. Gli uomini e le donne lasciati nudi nella neve, costretti a lavorare all’aperto con quindici-venti gradi sotto zero impantofolati in quelle infami e vezzose calzature di legno che scorticavano ferivano incidevano e infettavano la loro pelle a ogni passo, e la loro fame inestinguibile, belluina…

Erba? Non ce n’era, là…Se ci fosse stata, l’avremmo mangiata.


Ecco perché quella foto. Non è la baracca buia con i letti a castello, né il relitto di filo spinato, né gli alberi smunti come deportati, né quel cielo freddo come l’assenza di dio. E’ l’erba. Non ce n’era, allora. Mai. Ed è vero, il sopravvissuto non sta mentendo, non è la sua mente annebbiata dai patimenti a tradirlo. Anche Primo Levi lo dice, non so più dove o come, ma sarei pronto a giurarlo. Ad Auschwitz non ce n’era, di erba, solo fango o ghiaccio. Ma come si fa a fermare l’erba? Come si fa ad impedire all’erba di crescere? Quale mostruoso potere può rendere un angolo di mondo così totalmente infecondo?
Quando Lucifero fu cacciato dal Paradiso, dice Dante, e precipitato verso il basso dell’Universo, la Terra stessa inorridita si ritrasse da lui, e per non toccarlo s’aprì una voragine immane, un pozzo al cui fondo il principe degli angeli traditore si infisse, mentre all’opposto del pianeta la massa in esubero s’alzava a formare la montagna del Purgatorio. Ma i miti cosmologici medievali, per quanto grandiosi, sono per l’appunto fiabe suggestive. Ad Auschwitz, per cinque anni, è successo qualcosa che io non so spiegare, nessuno può farlo. Però dobbiamo ricordarcelo, di un posto dove gli uomini erano talmente disperati e annichiliti che avrebbero mangiato l’erba. Se ce ne fosse stata.

La seconda foto, intitolata nudamente “Office”, è quella da cui sono partito. Anche qui, la didascalia spalanca gli occhi della mente, quando non c’è immagine né angolo visuale di fossa comune o di forno crematorio dal soffitto annerito o di rotaie convergenti verso il cancello d’entrata o di recinzioni o di torrette di guardia o di Block tetro nei suoi mattoni a vista o di muro delle esecuzioni che tutti non abbiamo visto mille volte, e a cui in qualche maniera siamo ormai – fremo a dirlo, però devo – avvezzi.
La didascalia spiega che quello un tempo era l’ufficio di Rudolf Höss, il comandante del campo, l’immondo piccolo burocrate dello sterminio che ha consegnato con scrupoloso rispetto delle scadenze e untuosa ubbidienza, prima di andare a scalciare sulla stessa forca riservata a tante sue vittime, più di un milione di uomini alla morte. Ma ora, ora mentre Alan Jacobs lo inquadra e lo fissa aprendo il diaframma, non siamo nel ’44. Siamo nel 1980, probabilmente. Non c’era Rudolf Höss al lavoro lì, tra quelle carte, a usare quei telefoni, c’era un altro uomo. Kazimierz Smolen.

Quando vidi per la prima volta la foto non sapevo niente di lui, se non quanto mi diceva Jacobs stesso sul suo sito. Oggi però, che è la giornata della memoria e ho deciso che questa storia volevo raccontarla, non potevo più tenermela dentro, mi sono un po’ informato. Ho scovato, sempre su internet, un suo ritratto, e anche un’altra immagine scattatagli mentre tiene una conferenza. Ho imparato alcune cose che lo riguardano. Ma non ho intenzioni agiografiche, né biografiche. Fu un uomo molto coraggioso, però non è questo che mi importa, adesso. Se siete curiosi, il poco che ho reperito io lo trovate anche voi.
Nella didascalia, Alan Jacobs scrive:

Once Commandant Rudolf Höss’s office. At the time this photograph was taken, this room was occupied by Auschwitz Museum director Kazimierz Smolen, for five years a prisoner in the camp. The view is of the gas chamber and Krematorium I.


Kazimierz Smolen era il direttore del Museo di Auschwitz. Ed era un sopravvissuto al campo. Fin dall’inizio di quell’orrore, fin dal 1940, lui era lì. Quattro anni e mezzo ci resistette. Quattro inverni terrificanti, quelli di cui Primo Levi dice “sapevamo che da ottobre ad aprile sette su dieci di noi sarebbero morti”.
E ora era lì di nuovo. Dalla sua finestra, guardava verso le camere a gas e verso il crematorio numero uno. Fuori, tutto intorno in ogni direzione nel verde malato di quella landa atroce, che in mezzo secolo ha fatto in tempo a ricoprirsi solo di una vegetazione convulsa e contorta, si estende il più grande cimitero ebraico del mondo. Probabilmente il più grande cimitero di umani del mondo. Ma non c’è nemmeno una tomba.
Che cosa abita dentro la mente di un uomo che ha attraversato una storia così?
La prima cosa che ho pensato, con un brivido, è che da Auschwitz non si fugge. Nessuno ne è fuggito. Lo diceva anche Levi, fino a quando il peso e il terrore di risvegliarsi una mattina al grido “Wstawać!” non furono troppo, per lui.
Poi ho pensato a un qualche delirio di onnipotenza. Così come molti dei salvati svilupparono un profondissimo senso di colpa rispetto ai sommersi, per il solo fatto d’essere scampati laddove tutti o quasi erano morti, non è in fondo impossibile una fantasia inversa. Non solo io mi sono salvato, resistendo più a lungo di tutti gli altri, ma ora sono io al comando. Ora siedo io nell’ufficio di Höss, ed è ai miei ordini tutto l’innumerevole popolo di spettri che abita questo luogo, e che io vedo, li vedo tutti, li vedo in ogni luogo, strati su strati trasparenti e fiochi quasi com’erano in vita, con le loro carni sbiancate dal tifo e dalla fame e chiazzate dal sudiciume, tenui ma tutti presenti, perché io c’ero, io non sono come i turisti che contemplano poche rovine e s’immaginano il resto poveramente con l’immaginazione di gente che non è mai stata a lavorare a piedi nudi nella neve, che non mangiava rape e sporcizia a bagno in una zuppa latrinosa, che non dormiva tra morenti o dissenterici, che non veniva costretta a cagare a centinaia in fila dentro baracche di cui nessuno può supporre il tanfo, gente che non ha mai trasportato i rulli per spianare le strade, che non ha mai visto le cose che ho visto io, gente che non sa e non può sapere cos’era Auschwitz, e il peggio che si figurano non è nemmeno la pallida ombra della verità. Ora comando io questa nave dei morti, e mentre il ferro arrugginisce, il legno si consuma, le macerie piano piano si sfanno, di lavoro non ce n’è più, da fare. Non si uccidono più i morti, solo la retorica può sostenerlo, il nostro sacrificio è già stato consumato. Manco solo io, o quasi. E guardo fuori, la camera a gas e il crematorio. E rispondo alle domande cortesi di questo signore, questo fotografo americano, o inglese, o chi se ne importa di dove.

lunedì 3 gennaio 2011

L'Ansa, i numeri, l'informazione

Volevo scrivere un post brevissimo, oggi. Sarà breve ugualmente, ma mi trovo costretto ad aggiungere qualche frase.
Il nocciolo dell'idea che mi sentivo di esprimere, è che fino a quando la notizia di un soldato italiano ucciso in Afghanistan non verrà immediatamente accompagnata, in tutti i TG e su tutti i quotidiani, non solo dall'elenco progressivo delle vittime italiane (a oggi: 35), ma anche da quello dei morti locali, ecco io continuerò a trovare semplicemente scandalosa la manipolazione dell'informazione.

Ecco l'ANSA di oggi, 3 gennaio 2011:
"(ANSA) - KABUL, 3 GEN - Il numero dei poliziotti afghani uccisi nel 2010 e' sceso del 7% a 1.292 morti, malgrado continui la violenza nel Paese asiatico entrato nel decimo anno di guerra.
Lo ha detto una fonte governativa locale. Il portavoce del ministro dell'Interno ha comunicato che i ribelli uccisi sono stati 5.225. Il totale degli incidenti, tra imboscate, autobombe ed attacchi suicidi nel solo 2010 e' stato pari a 6.716. Per quanto riguarda invece le vittime tra i civili, sono state 2.043".

Lasciando da parte il fatto che di solito l'ANSA sa formulare una notizia in modo chiaro, mentre qui davvero non si capisce cosa si intenda con "il totale degli incidenti" - e la parola "incidenti" mi pare pure terribilmente inappropriata, essendo seguita e chiosata da "imboscate, autobombe ed attacchi suicidi" - non mi azzardo a fare conteggi, perché non so discernere se i 2043 civili siano compresi nelle 6716 vittime di "incidenti", o meno. E mi disgusta pure la contabilità dei "ribelli" uccisi, oltre cinquemila, i quali, invece che motivo di lutto, dovrebbero esser fonte d'orgoglio, gioia, festeggiamento, onore, compiacimento per la nostra efficacia sterminante. No, non li conto, stan lì sulla pagina, chi legge pensi quel che vuole. In un anno di guerra (guerra che va avanti da dieci anni), questo è, molto all'incirca, ciò che succede in Afghanistan.

La stessa cosa avveniva in Iraq. Ci sono siti, come icasualties.org, o Faces of the Fallen, che aggiornano in tempo reale sui "nostri" caduti. Delle decine, anzi centinaia di migliaia di persone spazzate via prima in Iraq e poi in Afghanistan, nessuno tiene il conto, anche perché come si potrebbe? Valli a riconoscere, quelli fatti a brandelli dalle autobombe, o dai cannoncini degli elicotteri che sparano a tutto ciò che si muove, o dalle bombe seminate a caso sui villaggi come si facevano nella seconda guerra mondiale, o quelli inceneriti dal fosforo bianco a Falluja. E, in fondo, chi se ne frega di un gigantesco database con le facce e i nomi della gente che ammazziamo per dar loro la libertà?
Però, certo, l'allarme gridato dalla prima pagina dei nostri quotidiani, accanto al lutto per il soldato ucciso, è quello per i martiri cristiani in Egitto.

mercoledì 22 dicembre 2010

Intorno alla "Villa con prato all'inglese" di Germano Lombardi


Sul numero 5 della prima «Alfabeta» (era il 1979), Giuliano Gramigna pubblicò un articolo dedicato a Germano Lombardi, L’occhio di Beatrix. Ibridava nel suo i titoli di due, o forse dovrei dire tre, romanzi del di lui poco più giovane autore ligure: L’occhio di Heinrich e Cercando Beatrix (più Chi è Beatrix). A parte il fatto che gli occhi bicolori dell’ignota, inafferrabile ragazza si affacciano in vari volumi di Lombardi, compreso questo Villa con prato all’inglese che torna oggi in libreria per le edizioni il canneto dopo trentatré anni dalla sua prima edizione, Gramigna (o forse, per lui, un redattore dell’«Alfabeta» di allora) con il titolo a innesto coglieva due peculiarità dell’opera dell’amico: la tendenza agglutinante – così che di tre testi se ne fa uno – e il continuo slittamento di un personaggio nell’altro, la loro opaca definizione, la loro inconoscibilità che li rende tutti sovrapponibili. E questo malgrado la fauna umana di Lombardi esibisca una variegata casistica di deformità, malanni, inettitudini, nevrosi, perversioni: basti pensare a Lucio Batàn, l’anziano onanista cronico, nonché sadico “puro folle”, su cui si alza il sipario di Villa con prato all’inglese. Per quanto malfatti, i personaggi sono tutt’altro che dotati di personalità: il dettaglio, specie quello ripugnante, sporge fortemente, così come il nome, ma i vari tratti non si saldano mai in unità.
Lo scrittore di Oneglia, allora, si trovava già sospeso al limitare dell’oblìo che presto lo avrebbe inghiottito, più di tutti gli altri sodali del Gruppo 63, malgrado resti di lui un esemplare profilo critico a firma di Giulio Ferroni nei Contemporanei di Marzorati. Sospeso, e già come inclinato verso la dimenticanza, perché a quella data i fasti e i furori del Gruppo 63 erano lontani, e così le discussioni sul nouveau roman o sul romanzo sperimentale. Nel 1979, ossia nell’anno che preludeva all’arrivo di Altri libertini, del Nome della Rosa, nell’anno dello sperimentalismo soft e cordiale, tranquillizzante, di Se una notte d’inverno un viaggiatore, usciva Chi è Beatrix, non solo senza suscitare clamori, ma anche senza destare particolari interessi, come un frutto fuori stagione. Era il penultimo elemento della saga narrativa più destrutturata che si possa immaginare, con ogni probabilità la più destrutturata del secondo Novecento italiano.
Un corpus composto di otto “pezzi”, tra romanzi e raccolte di racconti, pubblicati nel non breve arco cronologico compreso tra il 1963 di Barcelona – il suo libro più noto, legato alla data cruciale del convegno di Palermo – e il 1979, appunto. Ospitati prima da «I Narratori» Feltrinelli, la collana dove uscivano tutte o quasi le opere più rappresentative della nuova avanguardia, transitarono poi a Rizzoli, l’editore che negli anni Settanta continuava ad ospitare anche i sempre più arditi antiromanzi di Gramigna, non solo critico finissimo ma altro romanziere ingiustamente dimenticato: L’empio Enea (1972), Il testo del racconto (1975) e Il gran trucco (1978).
Cercando Beatrix nel 1976 e Villa con prato all’inglese nel 1977 segnano il passaggio di Lombardi da Feltrinelli a Rizzoli. In queste otto opere la continuità è data dal ritorno degli stessi personaggi, a nome Giovanni Zevi, Enrico China, Berthús, Beatrix, dalla disseminazione cosmopolita delle vicende, dalla similarità delle tematiche; la discontinuità dal fatto che nessuno di loro assomiglia mai neanche a se stesso. E se la posizione e l’occasione retrospettiva permettono sempre bilanci e sguardi magnanimi, non sarà fuori luogo percepire oggi questa forma d’eccellenza, seppur non ortodossa; eccellenza che spiega l’oblìo; eccellenza nella destrutturazione.
In seguito Lombardi avrebbe pubblicato solo altri due romanzi: China il vecchio, quasi dieci anni dopo, nel 1987, e Instabile Oceano, apparso postumo nel 1993. Frattanto l’autore era mancato a Parigi, sessantasettenne, nel ’92.
Si è spesa, non con leggerezza, la parola «saga», più frequentemente adibita a sottogeneri letterari di consumo quali la fantascienza o il romanzo post-storico/neo-storico. Proprio «narratore come di una saga», ebbe a scriverne Marcello Carlino nel 2002, in occasione del conferimento del Premio Marino Piazzola alla memoria, «e però inusitata e inquietante, le cui sequenze non si svolgono secondo un ordinato filo temporale né disegnano l’unitario ritratto composito di più generazioni in successione (è la saga piuttosto di un tempo irrisolto, di una storia che non matura e invece si scompensa e si inturgida, e si frammenta o avvizzisce nel contagio tra i trascorsi e il presente dell’esperienza)».
Rileggendo oggi Lombardi, specie in questo divertente Villa con prato all’inglese, che fu ignorato anche dai critici di solito attenti al suo lavoro, come Lucio Vetri, che in Letteratura e caos non lo menziona neanche in bibliografia, in questo libro che non è il suo migliore (lo è invece probabilmente Il confine, insieme ad alcuni racconti di guerra de L’occhio di Heinrich) ma di certo il più piacevole, viene in mente con prepotenza tutta una genealogia non-italiana, segno del respiro internazionale posseduto allora dalla nostra letteratura: viene in mente il massimo cantore della stupefazione alcolica, quel Malcolm Lowry che con Under the Volcano fu molto amato, specie dagli autori in scuderia Feltrinelli, eppure ci volle tempo perché lo si ammettesse (Balestrini pagò il suo debito con una bellissima sezione de L’Editore, solo nel 1989), e comunque senza il pathos del disfacimento tragico; viene in mente William Burroughs, visionario poeta degli stati di coscienza alterati e del cut-up selvaggio, cui «il verri» dedicò un numero speciale già nel ’68, forse la prima rivista letteraria in Italia a registrarne la grandezza; ma un Burroughs senza il lirismo del lisergico; viene in mente il Thomas Pynchon di V., uscito nel medesimo ’63 di Barcelona, un libro il cui nome si espone, a sorpresa per l’Italia, già nei dibattiti del Gruppo sul romanzo sperimentale all’altezza del 1965, e che la scoordinata, sconclusionata, impossibile ricerca di Beatrix sembra costantemente evocare, ma senza l’aspirazione enciclopedica da opera-mondo che sempre abita Pynchon; viene in mente il primo Robbe-Grillet, quello del poliziesco edipico Le gomme, ma parodiato e reso definitivamente pop, come già lo aveva messo in scena il più precoce, talentuoso, irriverente dei giovani del Gruppo 63, Adriano Spatola – sedici anni in meno di Lombardi – nel suo L’Oblò. Ma come può, la metamorfosi pop, stupirci in un uomo che nei primi anni Sessanta era intimo amico del gruppo di artisti di Piazza del Popolo: di Mario Schifano, di Tano Festa, di Franco Angeli, che viveva insieme a Giosetta Fioroni?
Scorrendo queste pagine vengono in mente, persino, l’improbabile Bond di Ian Fleming, una presenza obbligata nell’immaginario del decennio, o i duri investigatori/agenti segreti di poche parole e sempre miracolosamente intuitivi che raccontava Alistair MacLean, il più fortunato autore di war e spy stories dei Sixties. Il MacLean di Base Artica Zebra, di Where Eagles Dare, di Fear is the key, amatissimo nel mondo anglosassone anche prima che i suoi romanzi diventassero film di successo, non sembra davvero lontano, in molte scene, dalla mente di Lombardi. Mente capace, però, di estrarre dal sussiego di quegli agenti segreti anche un rovescio della medaglia comico-grottesco, di fare cioè dei loro silenzi una incapacità espressiva, delle loro intuizioni folgoranti dei plateali abbagli, della loro solitudine professionale un isolamento da disadattati, della loro prontezza di spirito una paralisi costante, del loro “niente sesso siamo inglesi” una sorta di disperata incapacità di usare il corpo, persino nelle sue funzioni essenziali.

Lombardi è uno scrittore impaziente, come fu in vita con i suoi tanti lavori, i suoi tanti domicili, da una parte e dell’altra dell’Atlantico e della Manica: un viaggiatore instancabile, uno scrittore che ama immaginare ma non ama indugiare a scrivere; perciò attinge a buffe formule burocratiche per introdurre i suoi personaggi dai nomi totalmente inverosimili («Mattia Pineale Justerini, ufficiale marconista di anni 29 e Mimosa Regno, detta Ricsciò, di anni 22»; «Nuvolo Cisterna, di anni 28, ex carabiniere»; «Olimpia de Amicis Justerini aveva anni quarantanove, da ventiquattro anni vedova di James Justerini, scozzese»; «la signorina Albana Molteni, di anni 38», e così via). Nessi formulari da organigramma d’ufficio dove sembra risuonare il memorabile incipit della Ragazza Carla di Pagliarani: «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo / all’ombra del Duomo», in quanto atto di nascita, almeno in Italia, di una letteratura scarnificata nel lavacro purgatoriale del mondo del lavoro, e della sua forma mentis.
Nelle legnose specificazioni di indirizzi e luoghi vive il rifiuto di ogni narrare finto aproblematico, cioè dell’inganno sottostante a ogni “realismo”: «L’auto era una 126 Fiat presa in affitto al garage “Flowers Rent” di San Remo sito in via Maj, numero civico 32 […] Un quarto d’ora dopo era nella città di Oneglia, via Viesseux 12, nella libreria di Onesto Cavour, nativo di Asti, di anni 68». Il genere giallo, la quête investigativa, viene così ricondotta al suo etimo di verbale di polizia. E questa tendenza è perfettamente in asse con analoghe suggestioni provenienti dall’area francese, prima e dopo i colloqui di Cerisy; penso a L’inquisitoria di Pinget, su tutti, o anche alla trilogia d’esordio di Robbe-Grillet, continuamente embricata tra giallo e perplessità scopica, tra raccolta degli indizi e loro pedissequa descrizione, non significativa. Se l’indizio dovrebbe essere per sua natura un segno significante, e spesso invece l’école du regard si arena volontariamente su segni non significanti, ecco che il sottogenere del racconto giallo diventa un perfetto diverticolo che ritorce contro la narrativa di consumo i suoi stessi stereotipi. Un percorso storicamente culminante in un capolavoro come La gelosia, dove l’occhio che raccoglie e descrive è l’occhio dell’ossessivo, sì da offrire la congiunzione apparentemente impossibile del massimo di oggettività con il massimo di soggettività.
Tutto ciò cozza in maniera proficua con l’ispirazione assolutamente romanzesca (quasi nel senso di romance) delle opere di Lombardi, dove si è sempre in presenza, almeno supposta, di complotti, attentati, spionaggi, furti, fughe, contrabbandi, tradimenti, omicidi, interrogatori, violenze. Un repertorio che, se trattato diversamente, sarebbe pronto per l’etichetta di postmoderno, e invece si ferma un passo prima, laddove il repertorio è ancora assunto con metodo critico, anzi smontato senza rimontarlo, anzi senza nemmeno più lasciare in giro le istruzioni per l’uso. Qualcosa che, con tutte le differenze del caso, e pure con qualche similarità, avrebbe fatto anni più tardi Don DeLillo nel suo libro più enigmatico, I nomi.
La tensione fondamentale di Lombardi si sviluppa tra il racconto e l’afasia, male da cui sono attanagliati tutti i suoi protagonisti, e le sue trame medesime, sempre tronche, sempre incapaci di concludersi o anche solo di esplicitarsi, sottoposte a continui cambi di scena e a recisioni impreviste, non funzionali. In Villa con prato all’inglese abbiamo un plot fumettistico che ruota intorno a una collana di diamanti rubata, a certe oscure vicende dell’epoca di Salò, e a svariati morti ammazzati, alcuni dei quali nascosti da gran tempo sotto il verde piano del giardino che dà il titolo al romanzo. Seguire da presso più che mai il modello del giallo internazionale fleminghiano, e neutralizzarlo continuamente, frustrando il desiderio di un qualche appagante approdo di senso, resta l’inganno più gustoso perpetrato da Lombardi in questo suo libro.
Libro che, per la curiosa eterogenesi di cui è capace a volte la letteratura, sembra a più riprese resuscitato, senza recar coscienza del proprio antico sé, nelle pagine recenti di Verderame di Michele Mari, anch’esse dominate dalla presenza di un giardino dagli oscuri segreti, di una villa di campagna, di scheletri sepolti di nascosto e ritrovati, di una memoria flebile e vana, un “letargo di talpe, abiezione che funghisce su sé”, per dirla montalianamente.

(una versione assai più breve è apparsa su "Alfabeta 2", n. 5, dicembre 2010)