lunedì 18 gennaio 2010

Avatar, ovvero l'inaggirabilità del Marine (attenzione: spoiler)

Spinto da una bella riflessione del mio amico Matteo Nahum, provo a dire la mia sul film "del momento".
Non sapevo bene cosa aspettarmi, al di là della confezione (che pure mi ha deluso, perché quasi tutte le creature sono banalissimi travestimenti: cavalli con sei zampe, ma che sembrano cavalli; cani con sei zampe, ma canini assai; pterodattili alquanto pterodattilosi; leoni-pantere un po' dinosauro, ma poco, e così via; mi è parsa tutta una estetica molto figlia del Mercenario di Vicente Segrelles. George Lucas con la trilogia di Star Wars era anni luce più avanti, già alla fine degli anni Settanta), però l'ho guardato lo stesso, in fondo James Cameron è sempre stato un grande costruttore di spettacoli, e questo non è affatto un demerito. Se lo spettacolo è puro entertainment, benissimo, se invece vuol veicolare un messaggio, occorre fare attenzione alla natura reale di quel messaggio. Le buone intenzioni non bastano mica, sappiamo tutti cosa è lastricato di buone intenzioni...
Menziono sempre Spielberg, a tal proposito, che con Saving Private Ryan dichiarò di aver voluto realizzare un grande film contro la guerra, e che invece girò un film nel quale rimaneva soltanto, dispiegato al massimo, lo spettacolo pirotecnico della guerra come non s'era mai vista. Realistico come i dinosauri di Jurassic Park, ma un un bel po' più ambiguo.

La cosa che mi ha turbato fin dall'inizio, in Avatar, è la presenza, centralissima, di cui sembra la cultura americana non riesca davvero a fare a meno, del corpo dei marines. Corpo inteso come Arma e come Fisico. Protagonista e antagonista, infatti (non fatevi ingannare dalla dottoressa, lei non c'entra nulla, e non insegna nulla né al Buono né al Cattivo) sono due Marine, l'uno ipermuscolare e quasi infrangibile, l'altro senza più le gambe, ma come per miracolo bravissimo a imparare in fretta a muovere l'arma biologica che gli hanno dato in mano, l'avatar azzurro alto tre metri. E' un travestimento, un costume da infiltrato, un metodo per approcciare l'Altro? Sì, forse, ma è soprattutto un'arma che salta, corre, rotola, colpisce, si connette neurologicamente... Lo si vede benissimo la prima volta che il protagonista vi entra dentro. Pur senza addestramento, capisce subito come usarla, molto meglio dei suoi predecessori (che infatti erano "filosofi", antropologi, etologi, linguisti, non dei combattenti) e mi è sembrata molto in malafede l'insistenza sui piedi e sul ritrovato gusto per la deambulazione. In realtà l'Avatar si manifesta subito come un'arma che gli umani del laboratorio da soli non sono in grado di fermare.

Cambia tutto, insomma, nella fantascienza, ma i marines sono sempre gli stessi. Durissimi, atletici, equipaggiatissimi, stolidi, eppur sempre loro, immutabili, con le magliette mimetiche arrotolate sui bicipiti come a Guadalcanal, come in Vietnam, come in Iraq. Qualcuno dirà - lo stesso Matteo lo dice, e ha ragione - che qui finalmente i Marines sono i cattivi, il braccio armato degli umani tutti, la punta di diamante di altri cattivi in doppiopetto come le multinazionali ecc. ecc. Qualcun altro dirà che già in Alien 2 (letteralmente saccheggiato in Avatar) Cameron aveva dileggiato i marines, tronfi super-armati e spazzati via in quattro e quattr'otto dalle Creature di Giger. Ma le cose non stanno soltanto così.
Prima di tutto osservo un fatto macroscopico, e cioè che, alla fine, per battere un Marine cattivo, ci vuole un Marine buono, seppur "rinnegato"; i nativi da soli non ce l'avrebbero mai fatta. E questo già la dice lunga, al mio naso, in termini di implicita superiorità razziale. Non solo. Il Marine doma senza sforzo anche Toruk Makto, come solo a un eroe leggendario (mitico?) dei Na'vi era stato possibile.
Secondariamente, è verissimo che il ripetuto infierire delle superiori tecnologie umane contro la natura e i corpi dei nativi ha un effetto straziante, mai vi si aderisce o ci si immedesima, e richiama alla mente mille simili strazi, dallo schiavismo dei neri allo sterminio degli indios, fino all'Agente Orange del Vietnam e al Fosforo Bianco di Falluja, ma, appunto, cosa mai può significare l'happy ending? Matteo, ancora una volta giustamente, sottolinea quanto sia significativo il briefing in cui si dice che ci vuole un "attacco preventivo" per "combattere il Terrore con il Terrore". Quello sarebbe davvero il punto più prossimo a una aperta dichiarazione d'intenti antioccidentale, eppure cosa succede, nel film? Succede che la "natura" si ribella, e si allea con i Na'vi. E sapete cos'è questa? Non è semplicemente un happy ending obbligato. E' una mistificazione gravissima. Perché la Natura non prende mai posizione, e ha ragione la ragazza Na'vi quando lo ricorda al Protagonista (venendo poi smentita dal colpo di scena finale). Non ne faccio una questione di inverosimiglianza, sebbene vedere le tigri giganti e i Triceratopi-monstre che fanno polpette dei Robot e delle Astronavi mi sia sembrata una pacchianata, come se vedessi un leone sconfiggere a morsi un Panzer. No, la Natura contro la tecnologia non l'ha mai vinta in campo aperto, nel duello diciamo, e se schiaccia gli uomini lo fa in maniera indiscriminata, con un terremoto o uno tsunami o una valanga, non distingue tra chi la rispetta e chi la oltraggia. L'happy ending è una mistificazione perché vanifica tutto il presunto messaggio del film.
Se Cameron avesse davvero voluto farci star male mostrandoci le nostre colpe, lo sterminio doveva essere assoluto, fino alla fine. Na'vi massacrati fino all'ultimo, e il loro mondo ridotto a desolata miniera. Perché è così che va, così è sempre andata, in Africa, in Sud-America, in India, in Cina, ovunque i colonialisti hanno messo le mani. Se avessimo visto quello scempio senza pietà e senza redenzione, come ve ne sono stati per secoli e vi sono tuttora, forse saremmo usciti dal cinema sentendoci davvero in colpa, invece la Messa di cui parla Matteo è pericolosissima perché appunto comprende la catarsi, cioè l'assoluzione. Non produce consapevolezza, non produce presa di coscienza.