venerdì 10 aprile 2009

Il drago

Io sono davvero un uomo malato. E sono davvero un uomo malvagio.
Credo l'ho capita la prima volta la natura del male che mi abita, che mi tormenta, solo qualche giorno or sono, a una brutta mostra di pittura che ho incespicato in rincasando.
Un vico fetido, una spalancata bocca di garage o sottoscala, ma triste come bocca senza denti, e dentro una seggiola di legno e un vecchio tanghero a oziare tra i mali prodotti del suo mal tempo e di quelle manacce contorte dall’artrite come tronchi d’ulivo. Io quando visto l’apertura e la stanza luminata a schiaffi da una lampadina impiccata solo al suo filo io digrignato i denti e stretto i pugni ficcandomi le unghie nei palmi lo faccio sempre quando qualcosa non mi piace. Buco sempre i guanti li lacero devo sempre ricomprarli. Se la gente mi vede farlo si spaura dicono sono aggressivo. Come se li facessi qualcosa, ma mica faccio niente, solo lacero stoffa. E digrigno. Ho i denti forti, mica come quei vecchi dalle bocche mencie, tutti gengive rosse e bolle di saliva. Ma divago, e invece devo no. Devo tener stretta la presa, morder più forte l’argomento, unghiarlo meglio.
Croste i quadri, croste con tinte dozzinali sulle croste, che però non erano tutto. C’erano delle cose, disegnate, sopra. Come sempre, purtroppo, quando gli uomini sciupano il bello del nonfatto con l’immondizia dei loro ghirigori sghembi. Ma queste invece interessavano.
Allora ho entrato. Lui mi sta guardato non molto di sospetto né troppo di curioso. Pittore, pensa sono bravo.
Dentro puzza di vernice acquaragia segatura vino cattivo. Mi ho sempre chiesto perché pittori non sporchino di loro merda tele e poi spalmino. Meno tempo perso con i colori, meno puzza, e poi meglio il monocromo. Io quando le volte che soffro molto e perdo tutto da dentro con tanto sangue nero poi spalmavo tutto in giro per la camera, mi calmava. Non sentivo più l’altro odore.
Ma divago, e invece devo no. Pingeva draghi, lui. Pingeva sempre e solo tutti draghi, in tante pose e forme diverse. Ma solo draghi. Code, zanne, artigli. Denti, unghie. E fuoco.
“Perché pingi draghi?” volevo chiedere. Ma paura di parlare. Sempre avuta. Paura del fuoco.
Lui vede, forse capisce, gli occhi lucidi e grassi di un pesce che agonizza sul fondo della barca, ultimo guizzo. Si alza dalla sedia con un bastone che ha lì a fianco, dice qualcosa che non capisco o non sento, passa lontano che più può e fila verso i gradini dell’entrata, in un momento è in strada, vecchio atletico.
Ne prendo qualcuno, li strappo dalle catenelle che pendono dal muro lebbroso come in una sala di tortura, butto in terra i cavalletti ringhiando senza volere. Qualche tela la squarcio senza volere con le unghie. Sono troppo forti le unghie per questa tela così fina sembra carta si sbrindella senza volere.
Tornato a casa, mi ho messo a guardarli per tante tante ore. E capito, finalmente. Capito il male lungo la schiena, quel male che al mattino sembra avere mille pezzi di vetro piantati nelle ossa. Sono le punte, che premono per uscire. Capito i guanti sempre rotti, i denti così forti. Capito la paura di dire. Capita la voglia di rovesciare le cose, quando non mi piacciono, con un gesto che mi monta spontaneo, è come una scossa, un imbizzarrimento. È un colpo di coda, che cerco. Ma la coda ancora non ha cresciuto. Solo il male, giù in fondo al corpo. Brucia come fuoco, grida come fuoco, e così anche nella pancia, anche se sto di giorni senza mandar giù niente. È fuoco, allora. Tutto dentro, tutto male.
Lo so, nascere è dolore, e io sto nascendo da me stesso, e mi spingo fuori con le lacrime agli occhi ma guadagno pochi millimetri al giorno.
Ma almeno ora ho i quadri. Almeno ora so dove sto andando. E quelle due grandi cose nere, come due alveari gonfi, pulsanti di violenza, dall’odore atroce, che ho sulle scapole, finalmente non mi fanno più paura. Ci sono le ali, dentro.

venerdì 3 aprile 2009

Francesco Ferranti - Barnices


I nuovi lavori che Francesco Ferranti ha realizzato e raccolto per questa sua prima personale recano il segno di una importante discontinuità con il passato. Singolare, non sottovalutabile, il fatto che un artista così dotato, così convintamente - se non orgogliosamente - catafratto nella propria poetica, decida finalmente di presentarsi in autonomia, senza più al fianco nessuno dei consolidati compagni d’avventure come Francesco Pasculli o Alessando La Motta, con quadri che marcano non una conferma del percorso seguito fino a oggi, anzi che affermano una sorta di nuovo inizio.
Ferranti con questo Barnices ­– parola spagnola che significa vernici ­– opera, a volerla dire tutta e subito, la propria prima simbolica discesa in città.
Città che rappresenta il luogo e l’immagine del moderno, la dimensione del contemporaneo, ora come all’alba del XX secolo, quando la metropoli costituiva la maggiore
novità socio-culturale, ma anche la fonte dei più intensi choc percettivi, per gli abitanti dell’arretrata Italia di campagna.

Chi si metta di fronte alle opere qui raccolte, non faticherà a scorgervi i profili, estremamente appiattiti, privati di tridimensionalità, ridotti a puro segno, di una foresta di palazzi convertiti in mere griglie, ossia in quella immagine base della modernità che è il reticolo di carta millimetrata, quella a cui Mies van der Rohe si ispirava per i suoi insuperati grattacieli, come il Seagram Building o le torri dei Lake Shore Drive Apartments.

Un celebre architetto postmoderno, Rem Koolhaas, nel suo libro Delirious New York ha scritto: «Manhattan è il prodotto di una teoria non formulata, il manhattanismo, il cui programma è vivere in un mondo completamente fabbricato dall’uomo, vivere dentro la fantasia… l’intera città è diventata una fabbrica di esperienze artificiali, dove il reale e il naturale hanno cessato di esistere». Oggi, che il manhattanismo globalizzato fa sorgere torri di acciaio e cristallo in ogni luogo del mondo, cancellando i diversi stili costruttivi, annullando con l’aria condizionata le specificità climatiche, omogeneizzando i luoghi e i modi del vivere secondo esigenze razionali di spazio e tempo, nessun artista può ritenersi estraneo a tale fenomeno.
La discontinuità di cui si diceva è per l’appunto in questo faccia a faccia di Ferranti con una dimensione, quella urbana, che non gli era mai appartenuta: questo pittore, terricolo e terragno quant’altri mai, questo pittore di materiali crettosi, di spessori e incisioni fittamente lavorate, questo pittore di grumi e accumulazioni cromatiche che, sempre, rimandavano a una idea di naturalità originaria, questo pittore istintivo disceso dai magni lombi di un Morlotti o di un Mattioli, ha azzerato il paesaggio, la sua musa perenne, e ha quasi eliminato la materia e il colore.

Come trasformazione è affascinante, non priva di qualche tratto traumatico, quasi che la predominante tonalità del grigio rimandasse a un mondo tutto ferroso e cementizio. Ma, se trauma c’è, non è rimosso: si tratta di una scelta di poetica molto consapevole, rintracciabile in ogni aspetto di questi lavori, dichiarata fin dal titolo. Ferranti, da pittore classico, da ultimo cantore del territorio, si fa qui radicale modernista: usa non più colori bensì vernici, che è parola eminentemente industriale; cosparge le tele di gesso; disegna con la biro e con matite, altri oggetti estranei alla tradizionale panoplia dell’atelier; ritaglia pezzetti di metallo arrugginito con scritte o lettere e li incolla a suggerire insegne o civici, come in una forma di collage lontano mille miglia dai primi esperimenti, ancora in qualche modo raffinati, dei cubisti e futuristi che disponevano sulla tela pagine di giornali letterari, di «Lacerba» e della «Voce». Inoltre, lavora per variazioni sul tema, cioè rifugge dal mito, ormai tramontato, dell’originalità dell’opera d’arte, e costruisce una serie di dipinti – i quindici pezzi qui raccolti – assemblando e riassemblando pochi elementi base, come in una privatissima catena di montaggio.

Spazio Espositivo Angelo Montanari
Villa Verucchio, via Casale 276
4 aprile – 9 maggio 2009
ore 9-12 / 16-19