venerdì 27 marzo 2009

Message In A Box

Recuperare un materiale accatastato dal suo luogo di accumulo e trasferirlo, con breve viaggio, in un altrove nel quale ripristinare, potenziata, la sua funzione: contenere. Questo pensiero ha alimentato la fantastica installazione di Marco Croatti e Massimiliano Canarecci IN A BOX per le danzatrici di Movimento Centrale guidate da Claudio Gasparotto. Il materiale è il cartone, la sua ur-forma o iper-forma è proprio la scatola.
IN A BOX, smontato e rimontato, reinventato ogni volt
a, ha avuto diverse realizzazioni, in luoghi e per occasioni assai diverse. Questa che riporto è la nota che scrissi per accompagnare il programma di sala al tempo del suo primissimo prender forma.
Ringrazio Marco e Massimiliano che ancora una volta mi vollero con loro, mi attrassero dentro la loro scatola di meraviglie.

Forse un paio di millenni prima di Gutenberg, e certo molti secoli prima della battaglia di Samarcanda (751 d.C.), che avrebbe regalato all’Occidente barbaro e arretrato l’insperato dono di un prezioso oro bianco con cui pensionare la pergamena, in Cina già esistevano i caratteri mobili della stampa, e la carta.
La carta, e l’arte dei segni, sono stati a lungo un possesso esclusivo del Regno del Centro, nel suo solenne e sdegnoso isolamento. Ancora nel XX secolo un fine intellettuale come Roland Barthes poteva parlare di «Impero dei Segni» per quell'altra isola inaccessibile, quel Giappone arcaico e futuribile che i suoi occhi di semiologo europeo vedevano con tutta la distanza e la meraviglia di una inconciliabile, radicale alterità
Ma i segni non sono solo scrittura, e la carta non è solo un supporto di parole.

Segni sono le movenze della danza, la pittura gestuale ed effimera che un corpo traccia nell’aria, segni sono le ferite che il tempo, e l’ambiente, infliggono alla roccia scavata dall’acqua, all’albero squassato dal fulmine, all’uomo reso dolente dalla malattia. E la carta è un contenitore di segni e parole tanto quanto lo è di oggetti, di materia, negli scatoloni che contengono questo spazio scenico, nei cartoni da trasporto che sono piccoli mondi passibili di infinite concentrazioni, ammassi, impilamenti, o successivi inscatolamenti, così che non v’è forse mai un esterno che sia del tutto esterno, e non v’è esterno che a sua volta non circoscriva altro, non si spalanchi su altro.Segni sono le cuciture che fanno su di una veste un ricamo, o su un corpo ferito, chirurgizzato, lasciano traccia di un rapporto tra dentro e fuori; e non v’è poi bisogno di un bisturi per entrare nel corpo altrui, se continuamente i medicinali, come pillole o gocce, raggi o creme, iniezioni o manipolazioni, rimodellano soma e psiche, alla ricerca affannosa di salute o salvezza, di benessere o di pace dai propri demoni.

Scatole sono le case, scatole le stanze, scatole inscatolano gli alimenti o i prodotti nei supermarket, e sempre la carta del packaging strilla con colori vivaci messaggi seduttivi, prima di finire nel cestino, immolata alla necessaria fruizione dell’oggetto. Dunque la carta che contiene e trasporta è anche la carta inutile, il rifiuto, che qui si offre nella sua povertà acromatica, nelle sue lacerazioni e consunzioni, incisa e ricucita a costruire il nuovo derma/luogo artistico nel quale si agitano dinamiche di sensi accesi, dripping di movimento, e un’energia e una pulsazione che sono ritmo vitale, circolazione di messaggi, riciclaggio di merci, ardore metabolico.
Anche i segni sono ferite sul bianco della pagina intonsa, e anche il foglio di carta è contenitore di un teatro, o di un cinema, forse, di visioni ideali.

La materia di cui siamo fatti, di cui ogni cosa è fatta, canta nel corrompersi e nel rappezzarsi, e se al silenzio tutti siamo infine condotti, è danzando sonoramente che vi si inclina.

Finestre

Esiste un celebre aneddoto, e poco importa se sia autentico o fabbricato, che racconta dello smarrimento in cui si trovò, un giorno del 1895, Wassily Kandinskij, il grande maestro cui si attribuisce “l’invenzione” della pittura astratta, dinanzi a uno dei capolavori di Claude Monet della serie dei Covoni. Enormi covoni di grano, enigmatici a forma di tukul, sullo sfondo di paesaggi dorati, quasi dissolti in pennellate energiche, spesse, multicolori.
Kandinskij, vuole la leggenda, fissa il dipinto, e non riesce a capire cosa vi sia raffigurato. È affascinato dalla potenza di quella composizione, da quei colori caldi, da quella materia così densa, ma non ci vede niente. Solo dopo qualche istante riesce a mettere insieme tutti i tasselli del puzzle, e capisce. Ma ormai il click in mente gli è scattato, non si torna indietro. Kandinskij ha compreso quanto possa essere straordinaria la pittura, anche in mancanza di un referente. Autentica o fabbricata, questa è l’allegoria della nascita dell’arte moderna.
Per quasi tutto il XX secolo, artisti, critici, e pubblico si sono alternativamente schierati per l’una o per l’altra via, tra figurazione e astrazione sembravano esservi quasi solo sguardi in cagnesco.

L’opera di Francesco Pasculli, che nella mostra del titolo Finestre si fa apprezzare entro In a box, un suggestivo e sintonico allestimento creato negli spazi della Galleria dell’Immagine di Rimini da Marco Croatti e Massimiliano Cannarecci, è invece una dimostrazione di come, discendendo da quell’archetipico covone, si possa produrre una pittura che rende obsoleta la distinzione tra figurativo e astratto.
Il covone, sia chiaro, non vale solo da antenato remoto, come una scimmia antropomorfa non è per nulla simile all’homo sapiens sapiens in doppiopetto e valigetta: qui la somiglianza c’è, eccome, perché la pittura di Pasculli, ormai da molti anni, opera una continua variazione sul tema del paesaggio, per la precisione del paesaggio agreste. Niente città, insomma, e quasi niente case, niente figura umana, tutt’al più un marginale manufatto, come uno steccato.
Ma è un paesaggio che continuamente presuppone il lavoro dell’uomo, perché queste vedute collinari - che potrebbero essere romagnole o del Montefeltro, senesi come umbre, delle Langhe o del Chianti, o venete o salentine - sono scorci di natura ordinata, addomesticata alla pari di un cane, docile millenaria compagna dell’uomo. Ed è nella ricca trama cromatica dei campi arati, nella scansione tra verdi, marroni, ocra e gialli della vegetazione, nel ritmo variegato di forme che segnano i profili dei poggi, nei cieli sabbiosi o affocati o bianchi o d’azzurro compatto, che Pasculli rintraccia una profonda possibilità di astrazione.

Finestre è
un titolo astuto, che mette in evidenza una modalità di visione solo apparentemente neutrale. Questi bellissimi quadri a prima vista si fingono innocenti, come panorami colti attraverso un vetro, mentre al contrario sono capricci, cioè composizioni di elementi reali assemblati in modo irrealistico, come si faceva nel Settecento con le rovine dell’Italia bella e decaduta da vendere ai nobili viaggiatori del Nord Europa in pieno Grand Tour.
Inoltre, le opere di Pasculli si offrono quasi più a una lettura tattile che visiva, sono dipinti lavorati e materici come la terra incisa, rivoltata, fecondata dei campi lo è dalle mani del contadino, sono segmentati, potati, smontati e rimontati come siepi, come rami d’albero, come filari.
Sembra tutta natura, ed è tutta storia.

mercoledì 18 marzo 2009

Un ricordo, un editore, e una storia edificante


Quando mio zio Alberto morì, quasi subito mi sentii di avanzare una richiesta che sorprese anche me.
In quella improvvisa mancanza di scrupoli lessi il sintomo, e il simbolo, di un desiderio che affondava come ogni iceberg scoperto solo alla sommità: chiesi alla zia se potevo avere, in suo ricordo, due libri, due libri della sua biblioteca che avevo amato in modo specialissimo, fin da quando ero bambino.
Lui teneva molto alla sua biblioteca, la accudiva e se ne stimava, e per tanti anni fu, quella, la più ampia raccolta di libri, settoriale per giunta, che avessi mai visto, una intera vasta parete coperta dal soffitto al pavimento di libri di storia, soprattutto di guerra. Un luogo che aveva l'aura del sacrario, della collezione, della faticosa costruzione di un sapere portato per mano e arricchito nell'arco di tutta una vita. Era la concrezione in pagine e dorsi, lettere nere e dorate, opuscoli e tascabili, di un qualcosa che potrei definire come il riversamento di un trauma adolescenziale (mio zio era del 1930, visse l'esperienza del fronte, della Linea Gotica, dei bombardamenti e dello sfollamento fra i tredici e i quattordici anni) negli stampi delle memorie altrui, combattenti o storici o vittime che fossero. Trauma e insieme fantasmagoria, come ben sanno coloro che a un conflitto scamparono a quell'età, quando tutto, perfino l'orrore degli orrori, riesce a divenire poi, nel ricordo, emozione che ruba il fiato.
La zia non solo accettò subito, ma disse che la cosa le faceva molto piacere, e mi invitò ad andarli a prendere il primo fine settimana che fossi tornato a Rimini. Era certa, e lo sono io del pari, che lui - ben consapevole della mia passione per quei due volumi - me li avrebbe donati volentieri, se avesse potuto.
Avevo scoperto quei libri non saprei dire a che età, ma so con certezza quando e perché: era tradizione, e lo rimase per tanto tempo, che le nostre due famiglie si riunissero nei giorni di Natale e Santo Stefano. Un anno a casa nostra, un anno a casa loro, e quando si stava da loro, io dovevo per forza andare in cerca, in quei lunghi pomeriggi in cui uscire era fuori discussione, e i grandi sonnecchiavano sui divani o giocavano a carte o guardavano la televisione, di qualcosa con cui giocare, per fronteggiare la noia. Esattamente come a casa mia, i miei giochi preferiti, inesauribili, erano i libri. E la biblioteca di mio zio, almeno fin dove io riuscivo ad arrivare, mi offriva un mucchio di giocattoli sconosciuti.
Allora ero piuttosto piccolo, amavo i libri illustrati, passione che mi porto dietro ancora oggi. Il mio imprinting venne da una edizione a fumetti dell'Iliade, che più invecchio più mi sembra contenere in epitome e in emblema la mia intera storia.
Da lui trovai due libri illustrati quasi altrettanto importanti, per il mio immaginario. Il primo si intitolava Waterloo. Il secondo Afrika Korps. Erano entrambi volumi ponderosi, con rilegatura rigida e sovraccoperta, l'uno sui toni del bordeaux e del carminio, come il cimiero di un Dragone, l'altro color sabbia del deserto. Uno conteneva meravigliosi dipinti a olio delle cariche dei cavalleggeri napoleonici e inglesi sul campo di battaglia, ma anche cartine dettagliate con gli spostamenti delle truppe, l'altro alternava foto d'epoca a vividi schizzi a china con immagini di autoblindo, Stukas, lanciatori di granate, cannoni antiaerei, tende da campo. Sarebbe piaciuta a Sebald, questa costellazione. Vertigini e Austerlitz, in fondo, muovono da lì.
Leggevo poco le parole, allora, ma sfogliavo e risfogliavo questi libri, ogni immagine me la studiavo nei dettagli per ore. Al sopraggiungere del Natale, la mia occupazione pomeridiana, anche quando fui grande ed ebbi licenza di uscire, era tornare a far visita a Waterloo e Afrika Korps, quasi fossero due persone anziane che vivevano lì e lì solo, e dalle quali io m'incantavo a farmi raccontare sempre le stesse storie.
Erano infine trascorsi molti anni da che non li avevo più avuti in mano, molti anni pieni di lutti malattie e invecchiamenti, molti Natali separati, e quando la zia mi invitò ad andare nello studio a prendere i libri ("Tanto lo sai meglio tu di tutti, dove sono", disse) per portarli via l'ultima volta, mi sentii come se m'avessero spalancato davanti, d'un tratto, le porte di un luogo cruciale della mia infanzia. Un luogo rimasto uguale in tutto e per tutto a come lo ricordavo, salvo che mio zio non c'era più, lì. E quel luogo che era stato tutto, mattoncino cartaceo per mattoncino cartaceo, costruito da lui, e suoi erano i disegni incorniciati, sue le fotografie, suoi i soprammobili, suo il gusto, era intatto, come se davvero il mondo fisico non si spostasse di un millimetro, quando noi veniamo meno.
Lui non c'era più, io non c'ero più, almeno l'io bambino che là dentro andava a sognare per evadere da pomeriggi troppo lunghi con la luce bassa sul tavolo e le nonne a riposare. Per un attimo mi sono sentito come un intruso, un saccheggiatore, qualcuno che si attacca morbosamente agli oggetti. Quei due libri simboleggiavano la passione di mio zio, che per contagio era presto stata anche la mia, ma ora quasi non li volevo toccare, mi sembrava giusto che rimanessero là, nella memoria, splendenti come la sua vitalità di marinaio che sapeva declamare Alcyone, come la mia ingenuità di bambino, come libri di meraviglie che da adulti non si possono sfogliare più, perché ritornano fatti di carta e parole.

E invece no, naturalmente. Li ho presi, li ho portati a casa, li ho attraversati con cautela, piano, come se potessero sentire dolore. Ma ecco, la sorpresa.
Del tutto imprevista. Agra, sulle prime.
E' vero che i libri fantastici da adulti non li puoi sfogliare più. Sono un'altra cosa, ora.
Perché ora leggo, e comprendo. E vedo scritto, su entrambi, un nome che conosco, che mi respinge, mi repelle.
Questi prodotti editoriali di gran pregio recano in fondo alla copertina la scritta Ciarrapico Editore.
Negli anni '70, Ciarrapico Editore pubblicava libri in difesa delle Waffen SS, degli uomini di Salò, della X Mas, perfino di Julius Evola. Volumi eleganti, con splendide illustrazioni, con una carta lucida e impaginazioni curate, opere che fan bella mostra di sé in una libreria, che possono incantare tanto un adulto quanto un ragazzo. Libri a combattere e decostruire i quali un uomo come Furio Jesi dedicava tutte le sue forze intellettuali. Chi fosse Giuseppe Ciarrapico allora non lo potevo certo sapere, e nemmeno l'avrei capito. Che al mondo esistessero persone malvage sì, anche a un bambino lo si può spiegare, ma che esistano uomini come Ciarrapico no, ci vuole molta più esperienza della vita e del suo squallore, per farsene un'idea.
Ma da questa apparente delusione ho estratto una morale edificante.
Ed è la stessa della prima novella del Decameron, quella di Ser Ciappelletto. Ser Ciappelletto è il più laido, disonesto, infame, vile, falso, avido e arrivista che mai sia vissuto. Sul letto di morte chiama il confessore, e confessa, con l'ultimo e il più sfacciato dei suoi inganni, soltanto virtù inarrivabili mentre finge di macerarsi nel rimorso di colpe microscopiche. Il confessore gli crede, lo assolve, sparge ai quattro venti la voce della sua santità. La folla accorre in pellegrinaggio, ne adora il luogo del trapasso, ne fa materia di racconto, leggenda, e spinta alla conversione. Ser Ciappelletto, genio del male, finisce per diventare, contro ogni previsione, autentico strumento del bene. Per caso, ma che importa?
I libri di Ciarrapico Editore erano revisionisti, forgiati con le peggiori intenzioni, confezionati con la stessa malizia delle confessioni bugiarde di Ser Ciappelletto. Volumi ingannevoli nati per essere suadenti, epici, mirabolanti, commoventi, volumi che mettevano in scena lo spettacolo sontuoso della guerra, mai il suo fetore. Libri di sinfonica menzogna, mai di scordata verità. Io da bambino li ho amati, eppure l'infame bugia del valore guerriero, dell'amor di patria, della nobiltà del sacrificio, della Nazione e della Bandiera, i fetidi feticci della Gioventù, della Virilità e del Sangue, non hanno minimamente attecchito su di me, anzi.
Ho continuato, come mio zio, ad interessarmi della guerra, a studiare le guerre, a cercare di capirle e immaginarle, ma non sarò mai vittima del loro fascino malato.
Boccaccio non lo dice, forse nemmeno lo pensa, però un lettore cristiano del Decameron dovrebbe confidare che Ser Ciappelletto, premiato dalla credula fiducia degli uomini, non per questo sfuggirà a una esemplare punizione oltremondana per le sue colpe.
Parimenti, se esiste una giustizia storica, anche solo in forma di prospettiva, Ciarrapico - condannato per aver violato quattro volte la legge che tutela il lavoro dei minori, condannato per la vicenda della Casina Valadrier, condannato per lo scandalo Safim-Italsanità, condannato per finanziamento illecito ai partiti, condannato per il crack del Banco Ambrosiano, oggi membro del Senato di questa Repubblica - riceverà il giudizio che merita, e io me lo auguro, ma di sicuro i fiori del male che egli ha contribuito a spandere, disinfettati un tempo dalla mia innocenza, ora dalla mia distanza, rimangono solo fiori, senza più alcun tossico.

E, come fiori, li depongo qui in memoria di mio zio.