giovedì 15 novembre 2007

Il Triangolo Nero / Nessun popolo è illegale

Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne

La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d’allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando “emergenze” e additando capri espiatori. Una donna è stata violentata e uccisa a Roma. L’omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. Rumena è la donna che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita. L’odioso crimine scuote l’Italia, il gesto di altruismo viene rimosso. Il giorno precedente, sempre a Roma, una donna rumena è stata violentata e ridotta in fin di vita da un uomo. Due vittime con pari dignità? No: della seconda non si sa nulla, nulla viene pubblicato sui giornali; della prima si deve sapere che è italiana, e che l’assassino non è un uomo, ma un rumeno o un rom.
Tre giorni dopo, sempre a Roma, squadristi incappucciati attaccano con spranghe e coltelli alcuni rumeni all’uscita di un supermercato, ferendone quattro. Nessun cronista accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità. Delle loro condizioni, nulla è più dato sapere. Su queste vicende si scatena un’allucinata criminalizzazione di massa. Colpevole uno, colpevoli tutti. Le forze dell’ordine sgomberano la baraccopoli in cui viveva il presunto assassino. Duecento persone, tra cui donne e bambini, sono gettate in mezzo a una strada. E poi? Odio e sospetto alimentano generalizzazioni: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall’Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra gareggiano a chi urla più forte, denunciando l’emergenza.
Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell’ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto. Nell’estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista. Di contro, come testimonia il recentissimo rapporto del World Economic Forum sul Gender Gap, per quanto riguarda la parità femminile nel lavoro, nella salute, nelle aspettative di vita, nell’influenza politica, l’Italia è 84esima. Ultima dell’Unione Europea. La Romania è al 47esimo posto.

Se questi sono i fatti, cosa sta succedendo?
Succede che è più facile agitare uno spauracchio collettivo (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) piuttosto che impegnarsi nelle vere cause del panico e dell’insicurezza sociali causati dai processi di globalizzazione.
Succede che è più facile, e paga prima e meglio sul piano del consenso viscerale, gridare al lupo e chiedere espulsioni, piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro e all’alloggio dei migranti; che è più facile mandare le ruspe a privare esseri umani delle proprie misere case, piuttosto che andare nei luoghi di lavoro a combattere il lavoro nero.
Succede che sotto il tappeto dell’equazione rumeni-delinquenza si nasconde la polvere dello sfruttamento feroce del popolo rumeno. Sfruttamento nei cantieri, dove ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco. Sfruttamento sulle strade, dove trentamila donne rumene costrette a prostituirsi, metà delle quali minorenni, sono cedute dalla malavita organizzata a italianissimi clienti (ogni anno nove milioni di uomini italiani comprano un coito da schiave straniere, forma di violenza sessuale che è sotto gli occhi di tutti ma pochi vogliono vedere). Sfruttamento in Romania, dove imprenditori italiani - dopo aver “delocalizzato” e creato disoccupazione in Italia - pagano salari da fame ai lavoratori.
Succede che troppi ministri, sindaci e giullari divenuti capipopolo giocano agli apprendisti stregoni per avere quarti d’ora di popolarità. Non si chiedono cosa avverrà domani, quando gli odii rimasti sul terreno continueranno a fermentare, avvelenando le radici della nostra convivenza e solleticando quel microfascismo che è dentro di noi e ci fa desiderare il potere e ammirare i potenti. Un microfascismo che si esprime con parole e gesti rancorosi, mentre già echeggiano, nemmeno tanto distanti, il calpestio di scarponi militari e la voce delle armi da fuoco.
Succede che si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, come con gli armeni in Turchia nel 1915, come con serbi, croati e bosniaci, reciprocamente, nell’ex-Jugoslavia negli anni Novanta, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi; che invoca al governo uomini forti e chiede ai cittadini di farsi sudditi obbedienti. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom. E non sembra che l’ultima tappa, per ora, di una prolungata guerra contro i poveri.

Di fronte a tutto questo non possiamo rimanere indifferenti. Non ci appartengono il silenzio, la rinuncia al diritto di critica, la dismissione dell’intelligenza e della ragione. Delitti individuali non giustificano castighi collettivi. Essere rumeni o rom non è una forma di “concorso morale”. Non esistono razze, men che meno razze colpevoli o innocenti. Nessun popolo è illegale.

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venerdì 9 novembre 2007

Alti e bassi

Sarà pure scontato ma se oggi mi guardo indietro e penso a quel che è successo mi dico che la vita è incredibile. Mica solo la mia, quella di tutti. Però a me fa specie la mia.
Nel bel mezzo del momento più depresso e frustrante della mia vita lavorativa, cominciato peraltro a sorpresa da pochissimo, il 1 settembre, quando il Ministro dell'Istruzione ha finalmente deciso che potevo dedicarmi all'insegnamento, e mi ha calciato a Imola, a badar diciannove più ventisei (più varie ed eventuali) belve dagli undici ai dodici anni, ebbene proprio lì, nel mio giorno libero, il giovedì, si è invece verificata l'occasione più alta della mia "carriera" accademica. Una cosa che, per piccina e senza conseguenze che sia, potrò ricordare sempre con orgoglio.
Insomma, ieri pomeriggio io ero nella Biblioteca del Dipartimento di Italianistica, dove ho passato sette anni da studente e altri sette da dottorando/postdottorando ecc. ecc., seduto a un tavolo, con davanti schierati tutti o quasi i prof. del dipartimento, i ricercatori, gli assegnisti, i dottorandi, i miei colleghi e amici, più un mucchio di studenti. E a fianco a me c'era il professor Angelo Raffaele Pupino, il presidente della MOD, l'Associazione per lo Studio della Modernità Letteraria, cioè l'accademico più potente d'Italia, il cui ultimo libro su Manzoni stavamo presentando (Manzoni. Religione e romanzo, Salerno, Roma, 2005).
E oltre a Pupino, al direttore del Dipartimento prof. Anselmi, e a due rodati manzonisti come il prof. Luciano Bottoni e il prof. Alfredo Cottignoli, a quel tavolo c'era seduto Ezio Raimondi. Il più grande critico letterario vivente, uno dei protagonisti assoluti dell'intellettualità del Novecento, il maestro di tutti.
Raimondi, che oltretutto è il massimo interprete di Manzoni, ha 83 anni compiuti, e ancora oggi è commovente. E' solo fisicamente più debole di un tempo, la sua nobile alta figura si è incurvata, ma l'ala del suo cervello resta quella di un'aquila reale. Ha cominciato a parlare ed è andato avanti per un'ora e venti, e se voi aveste registrato e stampato quello che ha detto, ci potevate fare un libro, senza correggere neanche una virgola. Non solo dicendo cose magnifiche per vigore, pertinenza, precisione, citando i passi a memoria, ma dicendo cose di una bellezza da togliere il fiato. E io ero lì, allo stesso tavolo, che lo guardavo, e pensavo che dopo toccava a me. Ma non mi sentivo male, i suoi interventi sono selve incantate come quella del Tasso di cui lui è stato un formidabile lettore (mi ha insegnato lui, con quel memorabile saggio di centrotrenta pagine che apre la Gerusalemme liberata in due tomi della BUR, a capire che immenso scrittore può essere un critico), ti perdi dietro a lui, e vivifica tutti. Infatti poi l'ho detto, quando, scemato il lungo applauso, un applauso autentico, grato, (perché un uomo come Raimondi non lo fabbricano mica più, ed è un dono ascoltarlo), il microfono è passato a me, che sono uno manco strutturato, e nessuno sapeva che lavoro su Manzoni, ed ero lì come esordiente assoluto, incomprensibile outsider, con tutti i fucili puntati addosso.
Beh, sapete che vi dico? Che parlare a braccio, improvvisare un intervento dopo un Raimondi anziano e struggente, inarrivabile ancora oggi come cinquant'anni fa, sarebbe stata dura per chiunque. Io me la sono cavata benissimo. Non stando ai pareri degli altri. L'ho sentito io, che è andata così. Ero tranquillo, lucido, non c'era più tempo né posto per la paura. Dopo una simile dimostrazione di onnipotenza, ti accorgi che è stupido e meschino (più ancora che inutile) cercare di primeggiare o anche solo di far bella figura. Le belle e le brutte figure sbiadiscono, la serietà del lavoro è l'unica cosa che conta. Siamo lì per confrontarci, per far passare delle idee, non per far la ruota come i pavoni. E io questo dovevo fare, questo ho fatto.
E chiudo, scusate se l'ho fatta lunga, riportando solo una delle frasi di Ezio, tanto per dare un'idea della qualità poetica del suo discorso. Parlava dell'uomo Manzoni, del suo io sdoppiato, tormentato e nevrotico, combattuto tra ragione e fede, della sua intelligenza lucidissima di analista del male e della sofferenza, del suo pessimismo radicale, e lo ha detto così: "mentre uno rifiuta le ombre, l'altro è dentro le ombre".

martedì 6 novembre 2007

La giacca e il paletto

(E' un vecchio post, in realtà, di un blog collettivo che ho con amici, ma ci sono affezionato, e lo rimetto su qui)

Qualche giorno fa ho visto una immagine singolare, per strada, tanto che se avessi avuto una macchina fotografica l'avrei fissata. Siccome non riesco a dimenticarla, la racconto.
Stavo tornando a casa dal Dipartimento, ero all'altezza della piazzetta alberata che si apre sul fianco del Teatro Comunale e che dà verso i Giardini del Guasto. Sotto le fronde vicino alla fermata dell'autobus stazionava, come sempre, un gruppo di punkabbestia con i loro tanti cani. Io passo oltre, oltre anche la fermata, e pochi metri più in là mi trovo prima a scorgere, poi a mettere a fuoco un po' incredulo, e infine a fissare, senza peraltro smettere il cammino, qualcosa che davvero non aveva nessun senso. La strada su quel lato è bordeggiata da una fila di paletti metallici vagamente vezzosi, quasi che la vicinanza del Comunale imponesse a tutto l'arredo urbano finezze un po' fuori dall'usuale.
Ebbene, su uno di questi paletti dalla testa rotonda poggiava, come su una gruccia, una giacca da uomo. Una bella giacca, la metà superiore di un abito gessato grigio antracite, senza strappi né macchie né segni di consunzione. Poggiata lì e un po' ripiegata su stessa, forse con noncuranza come avrebbe potuto esserlo sullo schienale di una sedia d'albergo, ma assolutamente senza l'aria d'esser stata gettata via.
Ho guardato intorno, e non c'era nessuno nei pressi, i passanti le filavano a fianco ignorandola, i punkabbestia badavano altrove..
Allora mi è tornato in mente un vecchio albo a fumetti di
Sergio Toppi, credo si intitolasse L'uomo dei Seminole, che terminava proprio sull'immagine di una giacca abbandonata, la giacca di una divisa da soldato americano. Il protagonista era un mezzosangue dalla pelle molto chiara, arruolatosi nell'esercito degli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento, durante la conquista della Florida, per sfuggire, fingendosi appunto un bianco, alla miseria e alla schiavitù. Ma non si può trovare la libertà indossando una divisa, e quest'uomo alla fine lo scopriva, dandosi alla macchia insieme agli indiani Seminole e sposando il loro destino già segnato.
Io in realtà non so da dove venisse quella buona giacca abbandonata su un paletto in centro a Bologna, e non ho simpatia sufficiente per gli indiani metropolitani da pensare a un manager in carriera che avesse fatto il gran rifiuto e si fosse unito al gruppo pulcioso dietro le mie spalle, anzi sospetto che sarebbe una morale davvero troppo facile per questa storia. So però che l'immagine era forte, e capace di numerosi sviluppi. Ho pensato a quel racconto di
Dick dell'uomo il cui mondo scompare un poco alla volta, e che fissa le tappe del suo allucinante calvario di sottrazioni progressive su un diario ritrovato in un bar, accanto a una tazza di caffé freddo, all'inizio della storia.. Ho pensato a Tre millimetri al giorno di Matheson, che è invece il racconto di un uomo che ogni giorno perde tre millimetri di statura, e si rimpicciolisce gradualmente fino a trovarsi faccia a faccia con la soglia ultima dell'annullamento, quando arriva a misurare appunto tre millimetri, e si domanda cosa accadrà il giorno dopo... Ho pensato a un qualche Bartleby lo scrivano al suo primo mesto "Preferirei di no", ho pensato a me stesso in giacca, e alla voglia che avevo di aprire la porta di casa e mettermi una tuta...

giovedì 1 novembre 2007

Addio a Tibbets, dicono...

Il giornale di oggi (Il «Corriere della Sera», insomma, mica il Gazzettino degli Stragisti, o Il Foglio Insanguinato, o Libero di Incenerire) titola "Addio a Tibbets. Morto a 92 anni il pilota dell'Enola Gay".
Ora, io forse sono distratto, mi sto dimenticando qualcosa, immagino che ci saranno alcune nobilissime ragioni per dire "addio" al nonnetto che viveva nell'Ohio ed era fiero di aver svolto così bene la sua missione. Se "addio" significa "Brucia all'Inferno", oppure "Spero che l'Inferno esista giusto per te, e se non esiste che te ne fabbrichino uno specialmente crudele", allora mi unisco di cuore all'addio.
Quest'uomo, solo spingendo un tastino col suo ditino, ha guidato un coso con su scritto il nome di sua madre (di sua madre!! Ma vi rendete conto di quanto è atroce e infantile questa cosa??) a far cenere di centoquarantamila persone, condannandone chissà quante altre a soffrire per il successivo mezzo secolo. Però la notte dormiva bene. Perché invece, sai che tragedia se aveva gli incubi...
E una merda di giornalista italiano gli dice "Addio"???

Serrada Serranda

Ieri mattina la serranda di camera ha deciso di manifestare il suo esaurimento in modo plateale, cedendo, crollando, accasciandosi, e a un tempo incastrandosi, per rimanere al suo posto e insieme non averci più a che fare, con quel lavoraccio, per serrare piuttosto che disserrare, facendo argine alla luce (pallida) del sole di novembre e al panorama desolante, di normale degrado cittadino, sul quale da sette anni mi introduceva, credo suo malgrado, ogni giorno.
Ho sempre invidiato quanti hanno la forza di brandire la propria debolezza, quelli che sanno dirti, come se fosse vero o sufficiente, "io questa cosa non ce la faccio". Come se a qualcuno, in generale, importasse qualcosa se tu non ce la fai. Molti sanno trovare il loro punto di rottura prima - per parafrasare un comico geniale tra i tanti estromessi dalla incivile Rai di oggi - che il loro punto di rottura trovi loro. Oggi la mia serranda ha deciso che di me, di Bologna, del mio vicinato affacciato sui quattro lati di una corte che fa molto Rear Window, della pioggia e del vento ne aveva avuto abbastanza e, come sempre mi accade in simili situazioni, non ho proprio saputo darle torto.
Rimarrà così per un po', questo è sicuro, e non solo perché sono giorni di ponte, in cui tutti sono in vacanza. La verità è che molta parte della mia vita, e delle mie giornate, le ho vissute al chiuso, questo è solo un piccolo gradino ulteriore e temporaneo di reclusione, nulla di cui crucciarsi.
Rest in peace, serranda, non ti porto rancore.